di Brian Degn Mårtensson – Folkeskolen (4/5/2013)
Traduzione di Matteo Albanese
In questi anni ci troviamo alle prese con un sacco di statistiche. Dobbiamo misurare, pesare e razionalizzare ogni cosa. In un’era pervasa da una così forte smania di competizione, tutto si riduce a diventare il Numero Uno – costi quel che costi. Che ci piaccia oppure no, agli occhi di molti, questa è una verità oggettiva. Dobbiamo soltanto vincere. Dobbiamo essere i migliori, e di conseguenza può essere certamente significativo esaminare anche il processo che ci porta a diventare, per l’appunto, i migliori. Che cosa ci serve per esserlo veramente?
Il 26 giugno 1992, la Danimarca è diventata la squadra Numero Uno in una competizione internazionale. In questa memorabile data, Noi abbiamo vinto il Campionato europeo di calcio. Che diavolo c’entra questo adesso, con quel che stavo dicendo? Ma sì, c’entra con quel che stavo dicendo perché proprio questa particolare manifestazione è stata molto significativa, per milioni e milioni di persone. Tutti i paesi d’Europa avrebbero ardentemente voluto la vittoria, e inoltre tanti milioni di corone sono stati spesi negli stipendi dei vari giocatori, nelle sessioni di allenamento nei ritiri, nei salari dei commissari tecnici e in altri vari ed eventuali costi. Senza contare gli anni di allenamento, da livelli amatoriali a campionati professionistici. Sia nei primi, che nei secondi, c’erano in ballo l’onore, l’identità e – sicuramente – dei soldi in palio. Detto in altre parole, si era creata una situazione di alta competitività e grande importanza per un alto numero di persone.
La cosa più importante è però che Noi come paese, la Danimarca, abbiamo una sorta di “esperienza comune” su come si riesca a diventare i Numeri Uno di una classifica. Persino se in questa classifica non ci viene regalato nulla. Del resto, la Danimarca è proprio un paese piccolo, che quindi non può attingere da una grande platea di talento come magari possono fare l’Inghilterra, la Germania, la Spagna o l’Italia. In altre parole, Noi abbiamo fatto esperienza di una situazione di concorrenza internazionale dove Noi – contro ogni previsione – siamo diventati i Numeri Uno. Ma andiamo a vedere come siamo riusciti a farlo:
1) Intanto, per cominciare, non ci siamo affatto qualificati per il Campionato europeo in Svezia del 1992, quindi in realtà abbiamo partecipato al torneo… non rispettando le regole di partecipazione al torneo! Abbiamo giocato solo perché la Jugoslavia è stata smembrata, quindi i nostri giocatori si sono radunati per l’Europeo senza però essere nella forma fisica adatta a giocare.
2) Non avevamo particolari grandi giocatori, e la qualità complessiva della nostra Nazionale non era esattamente… appariscente. È vero che c’erano nomi conosciuti, Peter Schmeichel, Flemming Povlsen e Brian Laudrup, ma il miglior calciatore di sempre del calcio danese – Michael Laudrup – non era tra loro. Gli altri giocatori che erano in quel gruppo vengono descritti come “secondari”. E questo non perché fossero deboli, o cose del genere, quanto piuttosto perché le altre nazionali contavano su calciatori ben più bravi.
3) Delle simili condizioni – forma fisica poco adatta e competenze piuttosto limitate – avrebbero richiesto di approcciare una competizione internazionale in modo diverso. Ma che cosa avremmo dovuto fare? Il commissario tecnico, Richard Møller Nielsen, aveva delle strane idee tutte sue sul calcio da proporre e non gli importava un granché quel che altra gente ritenesse “necessario” o tantomeno “giusto” fare. Per questo ha ricevuto diverse mazzate, dai media, dai suoi colleghi allenatori e dai suoi stessi giocatori. Contemporaneamente, si era fatta largo l’idea che presto lo avessero mandato via. E in effetti era diventato commissario tecnico dopo una “rinuncia”, e così avrebbe ora guidato la sua squadra agli Europei dopo un’ulteriore rinuncia. Tutto sarebbe potuto andare storto – visto che una competizione internazionale come quella ha una sua logica, su cui non incidono né l’idea di comunità, né ogni altro tipo di stranezze. Pubblicamente, quindi, c’era un atteggiamento di speranza verso qualche onorevole sconfitta, o che la Danimarca come paese non fosse presa troppo in giro.
4) Quando è iniziato il torneo, i “secondari” calciatori danesi sono riusciti a guadagnare un pareggio contro l’Inghilterra nella prima partita, il che è stato un po’ una sorpresa. Come può, del resto, una squadra non preparata fisicamente, di poca qualità, allenata da un commissario tecnico senza speranza, giocare contro una Nazionale preparata fisicamente e di alta qualità come l’Inghilterra? Era un po’ un mistero, ma per fortuna la Danimarca avrebbe perso contro i padroni di casa della Svezia la partita successiva, così in fondo la situazione è tornata a essere di nuovo un poco più adeguata. Ma nell’ultima partita della fase a gironi, la Danimarca ha sorprendentemente vinto – e giocando un bellissimo calcio! – contro la Francia, e una patina di mistero è tornata a tenere occupati gli esperti di tutt’Europa: come diamine può succedere una cosa del genere? Richard Møller Nielsen ha dato una risposta nel suo dialetto della Fionia: «Non ho mai pensato se un giocatore singolo ha giocato bene o giocato male, ma a come avrei potuto rafforzare la squadra». Nella partita contro la Francia, aveva sostituito Brian Laudrup, facendo entrare un giocatore abbastanza inesperto, Lars Elstrup (io stesso, dalla rabbia, ho gettato gli oggetti che avevo in quel momento a disposizione contro il mio televisore!), che poi ha segnato il gol decisivo.
5) Le altre squadre seguivano rigorosi programmi di allenamento, e una dieta ferrea: il riposo e gli aspetti tattici sono stati accuratamente studiati dallo staff delle migliori Nazionali. Era chiaro a chiunque che, grazie a quanto detto sopra, si sarebbe vinta la concorrenza degli altri Paesi. Questi programmi erano basati su analisi fondate sull’evidenza dell’impatto che la dieta ha sulle prestazioni del corpo, e su come va costruito un programma di ’allenamento ottimale. È stata grande la sorpresa – come anche l’indignazione – quando i media hanno potuto mostrare la Nazionale danese al McDonald’s di Malmø, sui campi da minigolf o alla piscina comunale, mentre scherzavano chiacchierando. Spesso, con delle birre in mano. Forse sia loro che il commissario tecnico erano impazziti? Ovviamente si allenavano anche – altrimenti non avrebbero assolutamente potuto giocare delle partite di calcio, a quel livello – ma era evidente che il loro focus sulla competizione fosse quindi gravemente insufficiente.
6) Nella semifinale, i danesi bevitori di birra hanno dovuto incontrare l’Olanda, una superpotenza del calcio, che aveva in rosa alcuni dei calciatori più forti d’Europa. Al termine di una delle partite più drammatiche della sua storia, la Danimarca ha vinto ai calci di rigore e si è improvvisamente trovata nella finale di un Campionato europeo di calcio. È stata comunque una felicità un po’ discutibile, sulla carta, visto che alla Danimarca erano rimasti soltanto pochi calciatori disponibili. Henrik Andersen si era fratturato un ginocchio (e si trovava in ospedale), molti altri suoi compagni avevano riportato infortuni lievi e traumi più gravi. Probabilmente, la partita contro l’Olanda è stata vinta semplicemente perché la squadra si è collettivamente rifiutata di perdere. Certamente l’Olanda era più forte, e tante altre cose, eppure gli olandesi hanno dovuto imparare che non si può vincere contro chi non ha intenzione di perdere – e, a proposito, non c’è alcuna “verità” che importi ai rivali. È stata davvero una dura – ma anche un po’ rincuorante – lezione: una comunità di persone è sempre più forte delle abilità individuali, delle previsioni e delle ovvie “verità”. Tutti noi, che l’abbiamo seguita all’epoca, temevamo che questa bellissima fiaba di Hans Christian Andersen dovesse crollare in finale, e che non avrebbe in alcun modo potuto vincere data una razionale prospettiva dei rivali.
7) Il 26 giugno, i giocatori della Nazionale danese hanno battuto per 2-0 la Germania in una finale fantastica, e sono così diventati i campioni d’Europa. Sulla carta era qualcosa di impossibile, ma è successo comunque. In che maniera si può vincere una competizione internazionale senza partecipare secondo le “reali” regole della competizione? A lungo si è dibattuto su questo, e le risposte date dagli esperti sono più o meno state le seguenti:
a) i migliori calciatori danesi erano relativamente migliori di quanto ci si aspettasse all’inizio;
b) i danesi sono stati fortunati e hanno quasi avuto il vantaggio di giocare in casa;
c) tutte le altre Nazionali hanno giocato al di sotto delle aspettative;
d) la tattica difensiva dei danesi è stata subdola e scaltra.
In questo momento, sentendo molti opinionisti e politici, siamo in una situazione di concorrenza internazionale molto importante. È una questione, come nel 1992, sia di soldi che d’onore, ma naturalmente anche di molti altri aspetti. Tuttavia, si può azzardare un paragone? Euro 1992 è stato qualcosa di abbastanza magnifico, che ha visto occupate molte persone – da un lato la popolazione, dall’altro gli opinionisti e i politici – ma le altre? Dopotutto, il calcio vale solo per alcune persone, quelle che prendono a calci un pallone di cuoio. Secondo me, questo è vero. E la musica è solo un insieme di eventi corporei che creano alcuni movimenti ondulatori, che colpisce i corpi degli esseri umani attraverso l’aria e, dentro il cervello, diventa dei suoni complessi. Il denaro è solo il concetto di valore che viene rappresentato da alcuni numeri dentro un computer. L’amore è un processo chimico dentro il cervello, che provoca la sensazione di un legame con un altro essere umano. Se vogliamo essere sufficientemente analitici, tutto può diventare indifferente. Il significato è qualcosa che formuliamo individualmente oppure tutti insieme.
Euro 1992 è stata una competizione importante per molta gente. L’odierna competizione nel mondo dell’istruzione è un importante confronto per molta gente. Ci sono certamente delle differenze, nella forma e nella sostanza, ma coincide il fatto di gareggiare a livello internazionale per qualcosa che si ritiene importante. Un’altra coincidenza è che – così come nel 1992 – anche oggi siamo un paese piccolo, dalle risorse naturali limitate e con una piccola platea di talenti a disposizione. Abbiamo tuttavia una ricca tradizione nel campo dell’istruzione e molti ricercatori talentuosi, che talentuosi lo sono diventati senza dei programmi o senza dei focus sulle competenze. E poi abbiamo avuto un commissario tecnico proveniente dalla Fionia, e che in un contesto come quello dello sport agonistico può arrivare a dire frasi del tipo: «Non ho mai pensato se un giocatore singolo ha giocato bene o giocato male, ma a come avrei potuto rafforzare la squadra». Richard Møller Nielsen ha guardato da vicino una comunità locale – a quel che si può essere e si può fare tutti insieme – anziché quantificare di quanto fosse veloce o quanto fosse bravo un singolo individuo. C’è molto di Grundtvig e c’è molto di danese – ed è l’idea che, contro ogni probabilità, si possa arrivare a vincere una simile competizione internazionale quando, con gentilezza e sentimento [l’autore usa il lemma Gefühl, in tedesco, lo stesso impiegato dal grundtvigianesimo a proposito della critica al razionalismo in nome del “sentimento”, N.d.T] si permette di lavorare indirettamente e in maniera implicita all’obiettivo prefissato.
Da questa storia si può imparare quanto segue: la Danimarca potrebbe diventare la Numero Uno in contesti internazionali, qualunque noi intendiamo, purché abbiano per noi un grande significato. C’è motivo di credere che noi – se vogliamo diventare i Numeri Uno – dobbiamo fare uso della nostra peculiare idea di valore comunitario, e che allo stesso tempo dobbiamo mantenere un approccio indiretto nei confronti della situazione competitiva. Serve quindi credere in quello che facciamo e in ciò che siamo, ignorare quindi le “verità” autoprodotte dai concorrenti, e chissà… Forse vinceremmo comunque. Oppure no. La cosa più importante è che siamo qualcuno, non qualche cosa [l’autore marca particolarmente la differenza usando prima nogen, il pronome indefinito danese maschile/femminile, e poi noget, in forma neutra, N.d.T]. È evidente che con questa caratteristica culturale, per molti anni, siamo riusciti ad arrivare in vetta a molte classifiche globali – ad es. quelle che riguardano la fiducia, la bassa corruzione, la ricchezza, la felicità e l’uguaglianza. E non perché vinciamo sempre qualche cosa, ma perché siamo quelli che stanno volentieri assieme. Il fatto che successivamente alcuni abbiano cercato di misurarci in confronti con altri, beh può essere molto bello ma in questo senso è del tutto irrilevante rispetto a quello che ci dovrebbe importare.
Non ha troppa importanza il fatto che abbiamo vinto Euro 1992. Le medaglie pendono dal collo di poche persone, e dopotutto il calcio è soltanto un gioco, un gioco nel quale prendi a calci un ammasso di cuoio. E a proposito, la Nazionale danese ha perso in così tante occasioni che si può quasi considerare la vittoria di Euro 1992 nient’altro che una strana, oscura coincidenza.
In un certo senso, però, è totalmente fondamentale che Noi abbiamo vinto Euro 1992. Abbiamo imparato – in una situazione competitiva moderna – che può essere molto importante il concetto molto danese del valore di una comunità – anche quando dobbiamo rendere conto alle classifiche. E poi, l’idea che si possa fare qualcosa di buono, che lasci spazio all’amicizia, all’amore, alle stupidaggini, al minigolf, alle piscine e all’unione dei singoli. Quella vittoria ci ha insegnato che razionalizzare, ottimizzare, normalizzare, e altre buzzword [parole d’ordine, N.d.T] sullo stato di chi concorre con noi, non sono affatto verità bensì postulati, che devono essere uniti per produrre del “lavoro”. Né il mondo né la vita seguono uno schema lineare, quanto piuttosto un groviglio di oggetti, espressioni e processi, ai quali noi attribuiamo importanza secondo puri criteri normativi. Ma che significa questo? In che modo dobbiamo comportarci? È questa, probabilmente, la domanda che dobbiamo porci.
*Brian Degn Mårtensson è dottore di ricerca in filosofia della pedagogia all’Università di Aarhus (Danimarca) con studi sulla filosofia di Nikolai Frederik Severin Grundtvig, è nel comitato editoriale della rivista Specialpædagogik. Ha scritto tra gli altri per Kristeligt Dagblat, Jyllands-Posten e Politiken, dal 2012 collabora a Folkeskolen. La sua attività di conferenziere l’ha portato in tutt’Europa, nel 2004 ha fondato una scuola di musica a Vallekilde e gestisce il suo blog personale https://briandegnmaartensson.dk/