Di Daniel Gallan, New Frame, 24/02/2021
Traduzione di Alessandro Bai
Nella seconda parte della serie, il focus si sposta su ciò che lo sport può fare per ridurre la propria impronta, che sia cambiare il modo di costruire gli stadi o quello di servire cibo ai tifosi.
In mezzo ai resti carbonizzati lasciati da un incendio che ha bruciato la vegetazione nello stato di Victoria, in Australia, dei germogli verdi spuntano dal terreno annerito. «È bellissimo», dice Amy Steel, una 31enne ex giocatrice di netball, dalla sua città natale, Melbourne.
«Era triste poter vedere soltanto cenere e fuliggine, sembrava che dovesse durare per sempre. Ma gli alberi hanno ricominciato a crescere, la maggior parte di loro sta tornando in vita. C’è verde ovunque adesso, e la speranza che tutto possa tornare com’era una volta».
Anche Steel sta attraversando un periodo di ricrescita personale. Cinque anni fa, era un’atleta che sfornava grandi prestazioni rappresentando il proprio Paese. Si era iscritta al programma professionale australiano di netball all’età di 15 anni e la sua fisicità era parte integrante della sua identità. Poi, come un eucalipto avvolto dalle fiamme, la sua vita è stata incenerita in un istante.
«Era marzo 2016», spiega Steel, raccontando una storia difficile da ricordare anche dopo tutti questi anni. «Era una partita di pre-campionato a Shepparton, una piccola cittadina a circa tre ore di macchina da Melbourne. Era una giornata torrida, con circa 39 gradi, durante la quale ci fermammo a firmare autografi in centro. Entro l’ora dell’inizio del match, ero già abbrustolita».
All’interno dello stadio al chiuso, l’allora 26enne Steel e le sue compagne dell’Adelaide Thunderbirds si stavano riscaldando per la partita contro i Melbourne Vixens. L’umidità sfiorava il 100%, persino le borse del ghiaccio servivano a poco. Solo un bagno gelato nel post-partita diede a Steel l’impressione che il suo corpo si fosse raffreddato. Quando uscì nel parcheggio, le sue gambe cedettero, lasciandola svenire a causa di un colpo di calore.
Quell’infortunio termico, un’espressione usata per descrivere l’irreversibile deterioramento cellulare causato da un grave surriscaldamento, segnò la fine della sua carriera da giocatrice di netball. Non riesce più a compiere sforzi che vadano oltre una leggera sessione di yoga o una breve nuotata. Correre e andare in bicicletta è fuori discussione. A volte, le servono più sonnellini per poter arrivare a fine giornata, ma ci sono state volte in cui anche alzarsi dal letto è stato impossibile.
«Adesso so di essere fortunata ad essere ancora viva, ma è stato un percorso doloroso a livello mentale e fisico», afferma Steel. «Mi ci sono voluti un paio di anni prima che fossi a mio agio a condividere la mia storia».
A dare coraggio a Steel sono stati alcuni amici che hanno parlato pubblicamente dei loro problemi di salute mentale. Da atleta, lei ha capito di avere una piattaforma per diffondere il suo messaggio. Ha realizzato inoltre quale era stata la vera causa scatenante dell’infortunio che aveva posto fine alla sua carriera.
«Ho capito che la crisi climatica non era un problema che apparteneva a un futuro distante», ha detto. «Era già qui e si era portata via ciò che aveva accompagnato la mia vita. Con intere giornate improvvisamente vuote, ho trovato un nuovo scopo. È un qualcosa che stiamo affrontando tutti insieme e lo sport deve giocare un ruolo fondamentale».
GLI OSTACOLI AL COINVOLGIMENTO DEGLI ATLETI
Quando non è impegnata con il suo lavoro da senior manager del comitato consultivo di Deloitte per il cambiamento climatico, Steel si presta da ambasciatrice per Eco Athletes, un’organizzazione che cerca di far sentire le voci di atlete che usano la propria posizione sociale per mitigare l’emergenza climatica. Fondata nell’aprile dello scorso anno da Lewis Blaustein, Eco Athletes ha reclutato 32 atleti provenienti da vari sport in tutto il mondo.
Formatosi nel settore della comunicazione, Blaustein aiuta educando e incoraggiando gli atleti a farsi portatori del messaggio sul cambiamento climatico. «Quello di cui abbiamo bisogno è trovare la Megan Rapinoe, il Colin Kaepernick, il Mohammed Ali della lotta climatica», spiega Blaustein. «Gli atleti sono già coinvolti in questioni sociali e politiche da decenni. Questa è la minaccia più grande che la nostra specie sta affrontando: chi può spostare l’attenzione su questo dibattito meglio di loro, che da anni hanno dimostrato la propria influenza?».
Secondo Blaustein, ci sono tre ostacoli principali che frenano un ulteriore coinvolgimento degli sportivi. Il primo riguarda la percezione che questo tema sia troppo scientifico e difficile da articolare. Il secondo è che si tratti di un argomento troppo politico e che intromettersi in una discussione così divisiva possa allontanare tifosi e sponsor, o persino attirare le ire di allenatori o organi di governo. La barriera finale, poi, è rappresentata dal fatto che un invito ad agire da parte degli atleti possa essere etichettato come ipocrita, considerata la loro stessa impronta di carbonio, in particolare quella di coloro che sono ai massimi livelli e volano regolarmente in tutto il mondo.
«I primi due problemi sono affrontati facilmente nei nostri seminari e nelle discussioni di gruppo, ma il terzo fattore è un po’ più complesso», spiega Blaustein. «Non si può negare che gli atleti contribuiscano direttamente alle emissioni di carbonio, tutti lo facciamo. Ma anziché fuggire dalla conversazione, noi incoraggiamo gli atleti a dire: “Hai ragione, io volo spesso. Lavoriamo tutti insieme per chiedere un’aviazione a basse emissioni di carbonio e delle modifiche nella pianificazione dei tornei”. Non deve essere o tutto o niente».
Durante il loro tour del 2017-18 attraverso l’Australia e la Nuova Zelanda, i giocatori di cricket dell’Inghilterra hanno collezionato circa 62.440 km in aereo, corrispondenti a oltre 1,5 volte la circonferenza della Terra. Iniziato e finito a Londra, il tour ha zigzagato per i due Paesi per quasi cinque mesi, includendo quattro viaggi diversi verso Perth, tre verso Adelaide, due traversate del mare di Tasmania e fermate multiple a Melbourne, Sydney e Hamilton. Soltanto i voli hanno lasciato un’impronta di carbonio equivalente a quella prodotta da 100 normali cittadini del Regno Unito.
«Una modifica al calendario servirebbe a ridurre l’impatto dello sport sull’ambiente», spiega Dom Goggins, consulente in politica ambientale e coautore del report Game Changer 2018, che ha investigato il modo in cui il cambiamento climatico sta colpendo lo sport nel Regno Unito.«Attualmente, i tour sono disegnati pensando soltanto ai profitti. Dobbiamo iniziare a organizzare questi eventi sulla base di altre priorità».
IL CAMBIAMENTO È POSSIBILE
Come sottolineato dalla passività che circonda la possibile riprogrammazione del tour dI quest’anno dei British e Irish Lions in Sud Africa, riorganizzare eventi scolpiti da tempo su pietra può essere complicato. Tuttavia, eventi annuali e più piccoli, come gli Australian Open di quest’anno, si sono adattati alle restrizioni di viaggio globali imposte dalla pandemia di coronavirus.
«Siamo chiaramente capaci di cambiare», spiega David Goldbatt, autore di Playing Against the Clock, un report pubblicato dalla Rapid Transition Alliance [un progetto che analizza i cambiamenti possibili che possono guidarci verso un futuro sostenibile, N.d.T] che sottolinea la collisione dello sport con la crisi climatica. «Il Covid ci è servito da sveglia. Se non altro, ha evidenziato il fatto che dobbiamo prendere la scienza seriamente. Ci ha mostrato che, anche di fronte al peggiore scenario possibile, possiamo adattarci».
Se il peggiore scenario possibile si realizzasse e non riuscissimo a centrare i due obiettivi posti dall’Accordo di Parigi sul clima – ovvero raggiungere la carbon neutrality [un processo mirato a azzerare e neutralizzare le emissioni di CO2, ottenendo un saldo di emissioni di CO2 minore o uguale a zero, N.d.T] ed evitare un innalzamento di 1,5 gradi su tutto il pianeta entro i prossimi 10 anni – altri cambiamenti permanenti sarebbero inevitabili.
Nel tentativo di allontanarsi dal ciglio del burrone, alla conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico tenuta a dicembre 2018 è stata lanciata l’iniziativa Sports for Climate Action Framework. Fino ad oggi hanno aderito 191 organizzazioni, compreso il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), la FIFA e la Formula 1. Tutto questo ha creato un network globale di club ed enti governativi impegnati a rispettare cinque principi chiave: compiere sforzi sistematici per promuovere una maggiore responsabilità ambientale; ridurre l’impatto climatico complessivo; educare all’azione per il clima; promuovere un consumo responsabile e sostenibile; sostenere l’azione climatica attraverso la comunicazione.
Questa cornice fornisce a coloro che aderiscono un piano preciso su come rendere concreto il cambiamento e condividere ciò che hanno imparato, permettendo ad eventuali nuovi membri di unirsi al dibattito. Ma come sottolineato da Goldbatt nel proprio report, ci sono dei limiti: «Non esistono obiettivi da raggiungere in questa impalcatura e nessun meccanismo di controllo, ma soprattutto non si trasmette un senso di urgenza adeguato».
Sono necessari provvedimenti più drastici, non basta firmare un documento e promettere che si cambierà. Goldbatt propone che «tutti i firmatari si impegnino a redigere e pubblicare un piano completo decennale che assicuri che le loro operazioni e quelle effettuate dai loro sport siano a zero emissioni entro il 2030».
Queste misure devono provenire dall’interno di un’organizzazione, ma troppo spesso si tratta di un approccio che parte dal basso per poi, inevitabilmente, scontrarsi con un soffitto di vetro. Il motivo per cui il Forest Green Rovers Football Club è una luce che splende in questo ambito è perché il suo proprietario, Dale Vince, è stato il vero motore del cambiamento. Dopo aver costruito la propria fortuna grazie all’azienda Ecotricity, nel campo delle energie rinnovabili, ha plasmato il club a sua immagine e somiglianza. Altre società possono vantare dipendenti eco-responsabili, ma la loro capacità di influenzare il cambiamento è limitata.
Prendete l’esempio dell’Arsenal. I Gunners sono al secondo posto nella classifica della sostenibilità di Sport Positive, che dà un punteggio ai club di Premier League basandosi sulle loro pratiche ambientalmente sostenibili. Lo scorso anno, la società del Nord di Londra era appaiata al primo posto con il Manchester City. Tuttavia, entrambe le squadre sono sponsorizzate da compagnie aeree, il che enfatizza come gli ideali cambino a seconda del livello di operatività.
LA FRONTIERA DEL CIBO
Ci sono correzioni più piccole e immediate che potrebbero essere implementate già oggi. Secondo uno studio pubblicato nel 2018 nella rivista Science, «una dieta vegana è probabilmente il modo individuale più efficace per ridurre il tuo impatto sul pianeta Terra, non solo per quanto riguarda i gas serra, ma anche per l’acidificazione globale, l’eutrofizzazione (il processo che crea una sovrabbondanza di minerali in un ambiente acquatico), l’uso della terra e dell’acqua. È molto più efficace che limitare i propri voli o comprare un’auto elettrica».
Questo è il motivo per cui il passaggio a un menù da stadio che sia totalmente vegetale, quindi privo di cibi di provenienza animale, dovrebbe essere l’obiettivo più immediato al quale avvicinarsi. Di certo, non sarebbe un’impresa facile nei Paesi dipendenti dalla carne. Ma come dimostrato dal Forest Green Rovers, può diventare un successo se fatto nel modo giusto.
«Il cibo da stadio non è sicuramente tra i migliori che ti possano capitare, quindi noi dovevamo competere con quello, che aveva un’asticella molto bassa», ha spiegato Vince al podcast Emergency on Planet Sport. «Ma noi facciamo dell’ottimo cibo, stiamo cambiando la percezione della gente. Chi era qui da tempo ci disse che avremmo ucciso il club se non avessimo servito carne, ma l’effetto è stato contrario. I tifosi ospiti vanno dalle proprie società a chiedere perché non possono mangiare come si fa da noi. Il cibo, in realtà, è una frontiera piuttosto semplice».
Un’altra soluzione rapida e fattibile consiste nell’installazione di stazioni di ricarica per i veicoli elettrici attorno agli stadi e nel montaggio di pannelli solari sugli ampi tetti di cui la maggior parte delle arene sportive è dotata. Sarebbe più costoso, ma comunque realizzabile, cambiare il modo di costruire i nuovi stadi.
Fatta eccezione per dadi e bulloni, la nuova casa del Forest Green Rovers sarà fatta interamente di legno. Il 75% dell’impronta di carbonio lasciata dagli stadi nella loro vita proviene dai materiali da cui sono stati costruiti, piuttosto che dall’energia usata per alimentarli per diversi decenni. Cemento e acciaio sono i maggiori colpevoli. Il legno, che ora è utilizzato anche per costruire edifici molto alti in Canada e Norvegia, cancella questo problema.
Anche i tifosi possono dire la loro. Nel passato, i sostenitori hanno protestato con successo contro città che volevano ospitare le Olimpiadi, cambi di proprietà nei club o rialzi dei prezzi dei biglietti. Anche se va detto che il loro potere è piccolo, la gente che riempie gli spalti e compra merchandising brandizzato può esercitare pressione su proprietari e commissioni che si rifiutano di riconoscere la necessità di cambiare.
L’INFLUENZA DEI MEDIA
Anche i media devono adattarsi. Si dice spesso, e pure ad alta voce, che lo sport è niente senza i tifosi, ma non è completamente vero. Il coronavirus ha svuotato gli stadi, ma gli show sono andati avanti per via di broadcaster e giornalisti. Questo non è l’unico articolo recentemente pubblicato che indaga la relazione tra il cambiamento climatico e lo sport, ma è comunque una rarità in mezzo al diluvio di contenuti che ruotano attorno voci di mercato, analisi tattiche e lotte di classifica.
Anche argomenti che si spingono oltre il confine, come la campagna Black Lives Matter e le insidie della pandemia vengono regolarmente osservati attraverso il prisma dello sport. La crisi climatica è destinata a sovrastare il Covid-19 in termini di impatto sulle discipline sportive e tutto questo riguarderà chiunque, a prescindere dalla razza o dalla classe sociale. Lo sport è una via di fuga e anche gli attivisti hanno bisogno di una tregua dal mondo reale. Ma questa catastrofe incombente deve essere la prima cosa a cui pensare sia per i content creator che per i consumatori.
Se questo non fosse possibile, lo sport ha un cavo di emergenza da tirare per aprire il proprio paracadute. Qualche giorno dopo l’omicidio di Jacob Blake da parte degli agenti di polizia a Kenosha, in Wisconsin, l’ex numero 1 al mondo di tennis Naomi Osaka si è ritirata dalla semifinale che avrebbe dovuto giocare agli Western & Southern Open, affermando: «Prima che un’atleta, sono una donna Nera, e in quanto tale sento che ci sono questioni più urgenti che meritano un’attenzione immediata, rispetto al vedermi giocare a tennis».
Osaka si è rifiutata di diventare uno strumento di distrazione mentre persone di colore venivano uccise con impunità negli Stati Uniti. I boicottaggi sportivi contro l’apartheid delle squadre di rugby e cricket del Sud Africa hanno giocato un ruolo importante nella caduta di quel regime fascista. Potrebbe accadere lo stesso a Jair Bolsonaro se le federazioni calcistiche si rifiutassero di sfidare il Brasile menzionando la deforestazione rampante della foresta amazzonica? Gli organi di governo accetterebbero ancora fondi da aziende di combustibili fossili se questo significasse perdere il diritto di ospitare una Coppa del Mondo?
Oltre alle modifiche agli stand di dolciumi e la riduzione di plastiche monouso agli eventi dal vivo, ci sono poche soluzioni a breve termine. Quello che ci vuole è uno sforzo duraturo e unilaterale.
«La più grande minaccia per questo pianeta è pensare che qualcun altro lo salverà», spiega Robert Swan, esploratore e ambientalista inglese. A differenza degli sforzi che si possono compiere contro il coronavirus, non esiste un vaccino che ci possa proteggere dall’emergenza climatica.
Non possiamo affidarci agli scienziati nei laboratori per risolvere questo problema. Da partecipanti e amanti dello sport, dobbiamo tutti fare la nostra parte. Abbiamo otto anni per preservare il nostro stile di vita. Intanto, il tempo scorre.