Traduzione di Andrea Meccia
A 15 anni, mentre scriveva racconti, Juan Villoro giocava come ala destra nelle giovanili dei Pumas. «Ero uno che rendeva le cose semplici: cercavo la velocità e poi la buttavo al centro o concludevo verso la porta. Avrei potuto misurarmi con il classico gioco all’inglese». Tifoso del Necaxa, formatosi nel Colegio Alemán de México, Villoro non è diventato un giocatore professionista, ma ha scritto libri sul calcio (Las once de la tribu, Dios es redondo, Balón dividido). E adesso, a 63 anni, dice che è arrivato all’età più triste per il mondo del calcio: quella del dirigente. «La mia ricompensa è parlare di calcio, la grande passione dei tifosi, una dimensione che non voglio perdere. Perché non sono un esperto. Sono un appassionato alla passione. In questo ho ammirato Eduardo Galeano. Lui scriveva di calcio solo quando aveva qualcosa di interessante da dire per continuare a goderne».
Sei riuscito a concepire un mondo senza calcio?
La pandemia ci ha tenuto lontano dal fervore calcistico. Non è stato necessariamente un male: di tanto in tanto una disintossicazione può fare bene. Noi tifosi non siamo dipendenti soltanto dallo sport, se non dalle mitologie che lo costituiscono. Passiamo la settimana intera a immaginare la formazione con cui scenderà in campo la nostra squadra, come si preparano i nostri avversari, amministriamo le nostre emozioni in funzione della partita. Questa è stata una terapia forzata di disintossicazione dal calcio, una cosa durissima, come perdere un’abitudine. Questa tregua ci ha però fatto allontanare un poco dalla nostra malattia, la “futbolite acuta”, che, a volte, ci impedisce di pensare ad altre cose.
Ti è stato utile questo periodo?
Di fronte una situazione che modifica le regole del gioco, il meglio che si possa fare è tentare di godere del nuovo contesto. Mi è sembrato utile perdere un vizio e cercare di trovare soddisfazione in altre cose della vita. Adesso noi, come tutti i malati, siamo capricciosi e proviamo le cure a metà. Succede così ai dipendenti da eroina, che si sottopongono a un trattamento di metadone. Il metadone, per noialtri, oggi consiste nel vedere vecchie partite. Non possiamo seguire la nostra squadra ma abbiamo a disposizione le partite simbolo in Tv e su Internet. C’è un fútbol retro che serve a curarci. Ma si tratta di una terapia che funziona a metà: non ci libera totalmente dalla dipendenza.
Prima del ritorno della Bundesliga, Toni Kroos ha dichiarato: «Se non possono i tedeschi, di conseguenza nessuno potrà farlo».
I tedeschi hanno sempre avuto questo senso di superiorità. Ricordo quando Beckenbauer era l’allenatore della nazionale tedesca che trionfò ad Italia ’90. In quel momento, la Germania si stava riunificando. E sul fatto di essere campioni e di poter contare nel futuro anche sui giocatori della Germania dell’Est, Beckenbauer disse: «Il resto del mondo mi fa pena. Noi siamo i più forti». Di tanto in tanto, i tedeschi perdono la ragione, e c’è da avere un poco di paura, perché il passo successivo è invadere la Polonia. L’espressione di Kroos fa parte di questa magniloquenza. Detto questo, la Bundesliga è uno dei campionati più noiosi del mondo. È un torneo fatto da due o tre club e, fondamentalmente, dal Bayern Monaco. Non è mai stata una vetrina importante dove far nascere dei campioni. Quando vediamo la quantità di giocatori che sono emersi nella Premier League, la Liga o la Serie A, ci rendiamo conto di come questi campionati siano superiori al tedesco.
Il calcio genera anticorpi contro la modernità?
C’è sempre un fútbol alternativo. E ogni tanto ci sono squadre che battono avversari di gran lunga superiori. È questo un elemento che definisce l’eroismo futbolístico. Quando l’Argentina era campione del mondo e perse contro il Camerun nella gara d’esordio di Italia ’90, sapevamo tutti che era stata sconfitta da una squadra inferiore. Non è che in quel momento il Camerun era improvvisamente diventato potente. Essendo più debole, era riuscito a far suo il match. Qui c’è un insegnamento significativo che ci regala il calcio. Ovvero, queste giravolte ci sono e ci saranno sempre, ma non potranno essere una costante. Mi auguro che il mondo del calcio capisca una volta per tutte, e chissà che questa pausa non serva a fare questa riflessione, che non ci possono essere dislivelli economici tanto brutali come quelli attuali. È inammissibile che Cristiano Ronaldo costi più del valore totale della sua squadra avversaria, come accade in alcune partite della Serie A. Può esserci dell’eroismo, ma come sappiamo l’eroismo si manifesta in grandi e isolatissime giornate.
Il calcio estremizza sempre le cose, ma il gioco ha una sua logica.
Per quando sia industrializzato il calcio, per quando denaro ci si possa iniettare, c’è sempre qualcosa che sorprende: il giocatore malizioso, quello che inventa una finta, quello che fa una pausa, inventa giocate che non hanno a che vedere con il denaro, la preparazione tecnica, le vitamine e i nutrizionisti. Sono cose che spesso provengono dal giocatore cresciuto in povertà e, allo stesso tempo, sono le più difficili da ottenere: l’ingegno, questo talento, figlio del barrio, che hanno i calciatori. Nel calcio si ha sempre diritto alla sorpresa. Si ritiene che con il livellamento mondiale delle tecniche di allenamento e alimentazione tutto il mondo potrà ottenere risultati simili. Ma uno come Messi compare ogni trent’anni.
Hai scritto che «la televisione è schiava della pelota». Noi tifosi siamo oggi schiavi della Tv?
E non solo per la pandemia, soprattutto perché la Tv ci ha dato la straordinaria opportunità di vedere le partite dei migliori campionati del mondo, una cosa che ha limitato la nostra capacità di autoinganno. Il tifoso si autoeccita, entra in una sintonia mentale con la sua squadra, e si entusiasma con cose che probabilmente non sono così significative. Questo spiega che squadre perdenti e noiose continuino ad avere tifosi. Il tifoso è qualcuno che accetta la sua condizione di tenere per una squadra che non è la migliore del mondo, ma è la sua. Tutto ciò dipende da un autoinganno molto produttivo. Durante i primi vent’anni della mia vita, volevo che il Necaxa vincesse. Oggi è difficile continuare a vedere solo la tua squadra quando la televisione trasmette le partite del Barcellona. Noi ci sentiamo tifosi digitali di Paesi dove non siamo mai stati. Ma qualunque persona che sia stata in uno stadio sa che il calcio si vede molto meglio lì, soprattutto se ci hai giocato; se sai come si muovono i giocatori, cosa si deve fare su un campo di calcio, capisci che buona parte delle azioni stanno laddove non c’è la palla, mentre la televisione capta solamente la traiettoria del pallone.
Lo scrittore José Marial ha scritto negli anni ’50: «Il calcio è uno sport argentino giocato per la prima volta in Inghilterra». Così ci vedete?
Dal punto di vista della passione non ci sono paragoni. L’animosità tra River e Boca è unica nel mondo, anche se possono esserci rivalità superiori. Una volta, parlando con un tassista di Buenos Aires che aveva assistito a un Boca-River, mi disse con grande orgoglio: «Questo non è nulla. Io sono di Rosario, e noi ci odiamo di più». Per questo gli animatori delle barras argentine sono diventati dei tecnici da esportazione. In molti sono venuti a caricare le barras messicane, hanno insegnato loro a cantare. Ma il fervore e la passione non si insegnano. È qualcosa di particolare, ma non sempre positivo.
Maradona è “uno schiavo liberatore”?
Maradona ha vissuto una situazione unica nel calcio, e questo ha a che vedere non solo con la sua straordinaria abilità individuale, ma anche con la particolare capacità di leadership che ha avuto sul terreno di gioco. È stato il grande virtuoso del suo tempo e, essendo il grande solista dell’orchestra, ne è diventato il miglior direttore. Pochi giocatori hanno avuto questa dualità. Nessun giocatore ha giocato meglio nella sua vita come quando ha avuto Maradona vicino. Questa capacità di far sì che gli altri giochino meglio, che si “liberino”, è quella che ha Spartaco, che dice agli schiavi: «Noi possiamo essere diversi». È quello che ha fatto con l’Argentina di Bilardo a Messico ’86, che non era certo la migliore nazionale. C’era la Francia di Platini, il Brasile di Zico. L’Argentina veniva da una brutta fase eliminatoria. E tutti giocarono meglio di come lo avessero mai fatto, Maradona compreso. Ho parlato varie volte con i suoi compagni di squadra. Quella umiltà, dedizione e solidarietà è unica nel calcio. Maradona inoltre ha generato una certa paranoia e ha potuto associarsi a Bilardo, maestro della paranoia. «Sono tutti contro di noi, il pubblico messicano non vuole che vinciamo, la stampa ci odia, e per questo dobbiamo vincere». È il requisito degli schiavi per liberarsi. È la capacità psicologica di Diego nel fare gruppo e far impazzire tutti.
Hai detto che, in questo senso, Messi perde contro la mitologia.
A livello statistico, Messi è il miglior calciatore mai esistito. Ma dal punto di vista emozionale, difficilmente lo possiamo avvicinare a Pelé o Maradona. È la strana condizione del mito. Zidane era un giocatore che non poteva aspirare alla gloria di Maradona. Ma attendeva i momenti migliori, la finale di Champions con il Real Madrid contro il Leverkusen o la finale del Mondiale di Germania 2006, per fare giocate incredibili. Questa capacità di arrivare al momento giusto non è addestrabile. E purtroppo Messi non è riuscito a confrontarsi con questi giocatori. Inoltre, la maggior parte dei grandi idoli hanno avuto una parabola tragica che Messi ha avuto durante l’infanzia con le difficoltà legate alla crescita e con la necessità di andare via già da piccolissimo in un altro Paese, una cosa che non è paragonabile con il barrio che Maradona si porta dietro e la forma con cui ha goduto tanto della vita quanto delle glorie. E questa doppia circostanza è la condizione dell’eroe: essere il più maledetto di tutti gli uomini e, improvvisamente, essere immortale.
Come analizzi la crescita del calcio femminile?
C’è un fatto che mi piace molto, e mi sembra una prudenza legata all’etica calcistica: tutte quelle mosse truffaldine nel tirarsi la maglietta, fingere falli, cadere e rotolare per metri in stato di rantolo tracheale, quelle falsità teatrali, per esempio la giocata favorita di un calciatore del livello di Neymar, che è cercare falli per ottenere un calcio di punizione, tutto questo tipo di concezione del calcio, è difficile ritrovarla nel calcio femminile. Questo è un fatto nobile, molto innovatore: non c’è bisogno di interromperlo mille volte. Le donne sono state in uno stato di marginalità in tutti gli strati sociali. In questo senso sono più coraggiose nell’assumere atteggiamenti differenti dentro e fuori dal campo. Essere donna nel calcio ha dato loro la forza dei deboli. Poter dire: «Non sono solo donna: sono lesbica e a chi non piace, chi se ne frega».
Che posto occupa il calcio nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) in Chiapas?
Il zapatismo ha incorporato le donne nel calcio. Giocano uomini e donne, in forma egualitaria. Inoltre ha una idea molto interessante dei ruoli: quando qualcuno gioca, perde il suo nome e si trasforma in una posizione. Qualcuno dentro il campo è “centravanti”, non ha nessun altro titolo. Ma il ruolo più prezioso nel calcio nell’Esercito Zapatista è quello del raccattapalle, ed è una cosa che ha a che vedere con il senso comunitario dello zapatismo. Gli altri potranno giocare molto bene, ma senza la pelota non potranno far nulla.
Il calcio è un romanzo?
Il calcio ha una sua narrazione chiara, personaggi evidenti. Ogni partita, un approccio, un nucleo argomentativo, un finale, e l’insieme delle partite, ovvero i campionati, un conflitto e una conclusione. I giocatori sono accerchiati dalla mitologia, da soprannomi, da superstizioni, tutto ciò che permette al calcio di essere raccontato nello stesso modo con cui si scrive un romanzo. Un lungo campionato europeo, non i “minicampionati” che ci riguardano in America Latina, è un romanzo. Per questo è molto difficile che ci sia un gran romanzo di calcio, perché il calcio è già di per sé un romanzo. E un buon romanzo deve inventare realtà, e il calcio è già stato inventato come un romanzo.
Durante la pandemia, ci sono stati tifosi argentini che seguivano il campionato bielorusso, che non si è mai fermato.Pur di vedere calcio, si fa elemosina dappertutto. A me succede che quando esco in strada, non adesso, e vedo dei ragazzi giocare in un campetto, istintivamente mi avvicino e penso di sperare di vedere una buona giocata, ma poi mi rendo conto che in realtà sto aspettando che sfugga loro la palla per poterla colpire e restituirgliela. Dovunque vedi la possibilità del fútbol, corri, perché senti che sei parte del gioco. Quello che dicevano gli zapatisti: il raccattapalle può essere il più importante di tutti.