di Pete Holmes (Senior Lecturer in Sport Coaching, Nottingham Trent University) – The Conversation, 8/3/2021
Traduzione di Alessandro Mastroluca
La stagione 2020 della NFL, la lega di football americano, si è conclusa con Tom Brady che ha festeggiato il suo settimo Super Bowl, un record. Ma è interessante notare un’altra prima volta: le tre donne coinvolte, due coach e un arbitro.
Con otto donne attualmente impegnate come coach nella NFL, la strada per la parità è ancora lunga, ma sembra che le donne stiano finalmente entrando sempre più nel ruolo di allenatrici nello sport maschile di vertice negli USA.
Purtroppo, non si può dire lo stesso dei principali sport di squadra in Gran Bretagna. Molte discipline top come rugby o cricket hanno un bilancio decisamente modesto in questo senso. Ma forse lo sport di più alto profilo che ancora deve accogliere le donne coach è il calcio.
Può contribuire la considerazione che quando le allenatrici di alto livello vengono accostate al calcio maschile, ci si aspetta che debbano partire dalle serie inferiori. Considerate il caso di Emma Hayes, manager del Chelsea campione in carica nella Women’s Super League (l’equivalente femminile della Premier League inglese). Nonostante questa posizione, si è fatto il nome di Hayes per il posto di allenatore dell’AFC Wimbledon, squadra maschile che lotta per la salvezza nella League One, la terza serie del calcio inglese.
Hayes ha spazzato via le voci e le ha definite un «insulto» allo sport femminile, aggiungendo: «Non so perché si pensi che il calcio femminile sia uno step sotto quello maschile. Il mondo del calcio deve svegliarsi. Lo sport è esattamente lo stesso, anche se giocato da persone di genere diverso».
Perciò, mentre lenti progressi si cominciano a vedere in altri settori, non c’è una sola donna nel ruolo di coach nel calcio professionistico britannico ad oggi. Ma perché? Numerosi studi, circa negli ultimi dieci anni, si sono concentrati sul tema del potere nel calcio maschile. In particolare, hanno evidenziato la cultura autocratica del dominio e la subordinazione che è esistita in alcuni club. Questo si è visto negli allenatori e nei manager che controllano molti aspetti dell’ambiente calcistico e domandano una totale conformità ai calciatori (soprattutto più giovani), indipendentemente da quanto tale richiesta sia in linea con le contemporanee nozioni di uguaglianza, diritti e inclusività. Ad esempio, gli studi hanno citato allenatori che usano un linguaggio aggressivo, il ricorso all’umiliazione e al bullismo come tattiche per generare paura e creare obbedienza tra i giocatori. Un ambiente simile difficilmente potrebbe continuare a restare così com’è con una presenza maggiore di allenatrici, perché la ricerca dimostra che l’approccio delle donne tende ad essere molto diverso.
Il ciclo delle idee della mascolinità
Gli studi nel 2020 hanno suggerito che gli allenatori iniziano a sviluppare le loro convinzioni (destinate successivamente a trasformarsi in pratica di allenamento) durante l’infanzia e la loro carriera sportiva. L’esperienza di coaching che maturano ai livelli più bassi o nei settori giovanili, e i mentori da cui la apprendono, sono spesso citati come fattori decisivi. Queste esperienze sociali e culturali forgiano i futuri allenatori in modi significativi e spesso inconsci. Non sorprendentemente, se allenatori uomini giocano a calcio da junior in ambienti maschili, giocano da professionisti in uno sport maschile, allenano nei settori giovanili di squadre maschili e incontrano come mentori altri allenatori uomini, la loro esperienza della cultura calcistica maschile e dominata dal potere può predisporli verso una forma di comportamento autocratico. Perciò il calcio maschile può finire intrappolato in un ciclo di pratiche dominate dal concetto del potere con poco spazio di manovra.
Gli allenatori uomini hanno dominato anche il calcio femminile in Inghilterra fino agli ultimi anni. Oggi otto delle dodici squadre della Women’s Super League sono allenate da donne. Ma solo due anni fa, queste squadre erano appena quattro. A livello di nazionale Sarina Wiegman, attuale ct dell’Olanda, prenderà il posto dell’ex calciatore dell’Inghilterra Phil Neville sulla panchina delle Lionesses, la selezione femminile inglese.
Wiegman è una delle poche donne nel mondo ad aver allenato in una squadra professionistica maschile, in quanto ha lavorato per una sola stagione come vice-allenatore dello Sparta Rotterdam nel campionato olandese nel 2016.
Cosa possono portare le allenatrici
Le allenatrici, molte delle quali possono aver praticato altri sport oltre al calcio, possono aver sperimentato ambienti molto diversi rispetto agli uomini ed essersi formati in modi diversi. Secondo un sondaggio pubblicato nel 2015, le atlete di vertice vogliono poter parlare di tutto con i loro allenatori. Vogliono sentirsi a loro agio nel fare domande e nel ricevere risposte, con suggerimenti, negoziazione, flessibilità. È certamente quello che ho osservato come ricercatore e coach developer, e appare in netto contrasto con lo stile autocratico maschile evidenziato negli studi precedenti.
Secondo uno dei pochi studi ad aver analizzato questo problema, le allenatrici (ancora, tipicamente ex atlete di vertice) riuscivano a creare relazioni con i loro atleti di qualità più alta e a mostrare più empatia rispetto agli allenatori.
Torniamo dall’altra parte dell’Atlantico al football americano, Jennifer King ha rotto un’altra barriera nel 2020 diventando la prima allenatrice nera di una squadra maschile quando è stata scelta come assistant coach dei running back a Washington. Delle 14 squadre che hanno raggiunto i playoff NFL nel 2020, sei includono nello staff donne nel ruolo di coach. Su questo tema, King ha detto: «Non credo sia strano che queste squadre che arrivano ai play-off abbiano tante allenatrici perché le donne coach creano culture di crescita e inclusione, e queste in genere creano vittorie».
Può sembrare difficile da immaginare ora, ma le qualità che le allenatrici possono portare, e le differenze rispetto a quello che gli allenatori possono fornire, magari è proprio l’ingrediente che al calcio professionistico (per non dire agli altri sport d’elite) è mancato per portare il gioco in Gran Bretagna nel ventunesimo secolo.