di Gianni Galleri 

All’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa era divisa in due aree di influenza: una Occidentale che faceva riferimento alle potenze atlantiche e una Orientale, che invece guardava a Mosca e all’Unione Sovietica. Nacquero così tutta una serie di Paesi a guida socialista, con forme di governo nuove rispetto al passato che ebbero importanti effetti sull’organizzazione sociale e culturale di queste nazioni. Il calcio non fu certo risparmiato dal vento di novità che si respirava oltrecortina e molte squadre che si erano legate a doppio filo con le precedenti amministrazioni furono sciolte o fortemente ridimensionate. Intuendo però l’importanza del calcio, di contro vennero fondate nuove realtà collegate in modo più o meno diretto con il potere socialista. Fu così che nel lustro subito successivo al 1945 videro la luce nel blocco socialista alcune delle realtà che ancora oggi spadroneggiano nei rispettivi campionati. Alcuni esempi: in Romania, la Steaua (1947) e la Dinamo (1948) a Bucarest, direttamente collegate con l’Esercito e con il Ministero degli Interni; in Bulgaria, il Cska di Sofia (1948), anch’esso collegato con le armate militari; in Jugoslavia, la Stella Rossa e il Partizan di Belgrado e la Dinamo Zagabria, tutte e tre fondate nel 1945. Il Dukla Praga (1947) in Cecoslovacchia e, in Albania, a Tirana, la Dinamo (1950) e il Partizani (1946). Quando non vennero creati nuovi club si cercò di attrarre verso le influenze governative club storici, che talvolta resistettero, talvolta vennero inglobati fino a rappresentare al 100% le idee del potere.

Inutile sottolineare come tutte queste squadre nel periodo compreso fra la seconda Guerra Mondiale e la caduta del Muro di Berlino diventarono le compagini più forti dei rispettivi campionati. Avere “un santo in paradiso” poteva significare ottenere i migliori giocatori del Paese, serviti su un piatto d’argento dalle squadre concorrenti. Inoltre gli arbitri spesso assumevano comportamenti quantomeno amichevoli nei confronti dei club. Con rare eccezioni (ad esempio il Dukla, che non fu mai veramente amato in patria), tutte le altre squadre diventarono le formazioni più amate, seguitissime da tutta la nazione. Fino agli anni Ottanta a loro era permesso quasi tutto. Ma verso la fine del Decennio qualcosa iniziò a cambiare. Mentre sugli spalti nascevano i primi gruppi organizzati che si definivano ultras e le formazioni dell’Europa orientale si affermavano nelle coppe continentali, anche il potere cominciava a mal tollerare le esibizioni troppo sfacciate. Non è un caso che in Bulgaria, il Presidente Todor Živkov nel 1985 sciolse Cska e Levski, dopo che le due squadre avevano scatenato una rissa in diretta TV. Allo stesso modo, nel 1988 il potere romeno manifestò chiaramente la sua insofferenza dopo che Dinamo e Steaua avevano dato vita a una finale di Coppa scandalosa.

Ma chi si aspettava ritorsioni contro queste formazioni dopo la caduta dei governi socialisti rimase deluso. Il legame fra la società civile e queste squadre era troppo forte e l’amore verso i club era ormai un aspetto irrinunciabile per tantissima gente. Pagò chi non era abbastanza potente: in Romania ad esempio ne fecero le spese il Victoria Bucarest (affiliata alla polizia), l’Olt Scornicești (il paesino di nascita di Ceaușescu) e il Flacăra Moreni (squadra collegata a un importante notabile socialista).

Quello però che successe con forza negli anni Novanta, fu l’emergere di nuove realtà spesso legate agli uomini d’affari che avevano fatto soldi e carriera grazie alle privatizzazioni degli apparati socialisti, gli oligarchi. Avendo anch’essi intuito l’importanza dello sport come trampolino economico politico, questi “brutti ceffi” decisero di investire in squadre di calcio per salire alla ribalta nazionale. Un nome su tutti: George Becali detto Gigi, che negli anni Novanta entrò nel consiglio di amministrazione della Steaua Bucarest fino a diventarne l’assoluto padrone, comportamento che ha scatenato tutta una serie di proteste culminate con la causa in tribunale e la scissione in due società, il Clubul Sportiv al Armatei Steaua e il Fotbal Club FCSB. Un altro esempio ancora più tragico fu quello dell’Obilić di Željko Ražnatović, conosciuto come Arkan, che nella squadra belgradese investì parte della ricchezza accumulata negli anni di guerra. Arrivò a vincere un titolo nazionale, prima che pressioni politiche lo costringessero a lasciare la carica di presidente alla moglie, la cantante turbofolk ceca. Al di là delle storie più eclatanti, nell’ex blocco orientale e in particolare nei Balcani si è osservata la comparsa di un numero sempre maggiore di squadre senza una storia profonda alle spalle, che dal nulla hanno toccato vertici altissimi, come il Litex Loveč e il Ludogorets in Bulgaria, l’Astra Giurgiu e il Cfr Cluj in Romania, lo Skënderbeu in Albania (che un po’ di storia alle spalle ce l’aveva, ma non certo di trionfi e vittorie). In qualche modo queste squadre potrebbero definirsi “plastic club”, senza seguito, senza passato, ma con disponibilità molto alte e spesso collegate a un solo uomo al comando.

L’altra faccia della medaglia è la caduta di formazioni storiche. Sono sempre di più le realtà che hanno dovuto dire basta e si sono arrese ai debiti e all’assenza di investitori. Nomi eccellenti: Rapid Bucarest, Petrolul Ploiești, U Craiova, Cska Sofia, Botev Plovdiv, Olimpija Lubiana, Partizani Tirana. E versano in condizioni tremende squadre come Levski Sofia, Željezničar, Dinamo Bucarest. E moltissime altre. Un’altra tendenza degli anni Dieci del Duemila è stato lo spettacolo poco edificante di vedere due squadre omonime (o quasi) darsi battaglia sul campo e nei tribunali: Fcsb contro Csa Steaua, Cska contro Cska 1948, Asu Politehnica Timișoara contro Acs Politehnica Timișoara, U Craiova contro U Craiova.

In questa nuova fase del calcio degli anni Duemila, la Romania ha rappresentato un’avanguardia: sono ormai decine gli esempi di “club fenice”, risorti dalle proprie ceneri grazie alla spinta dal basso dei propri sostenitori. C’è stato un ovvio cambio di prospettiva: si è passati dalla voglia di veder vincere i propri colori, a quello di vederli sopravvivere, lontano dalle bizze di un qualsiasi ricco investitore che poteva decretarne la morte per noia o cambio di programma. Sono molti gli esempi: percorrendo strade leggermente diverse fra loro hanno rimesso in carreggiata sodalizi storici che diversamente sarebbero caduti nel dimenticatoio. L’Uta Arad, il Petrolul Ploiești e il Politehnica Timișoara sono tre fra gli esempi più importanti del Paese.

Che cosa riserverà il futuro? Che cosa ci si può aspettare per il calcio di domani, in campionati come quelli della ex Jugoslavia, dell’Albania, della Bulgaria o della Romania? Difficilmente l’arrivo a livello continentale di progetti come Super Lega porteranno giovamento a questi tornei che già oggi vivono una emorragia di pubblico. Solo lo zoccolo duro rappresentato dagli ultras continua a seguire le squadre, mentre il “tifoso normale” è stanco di vedere un calcio di bassissimo livello in strutture fatiscenti e preferisce guardare il Barcellona o il Manchester City, al caldo, dal divano di casa. La Conference League potrebbe rappresentare un palcoscenico per molti, ma la sensazione è che sia solo un palliativo e non porterà sul lungo periodo alla rinascita del movimento. Stella Rossa e Steaua trionfanti in Europa rimarranno solo un ricordo, sempre più sfumato. La rinascita dal basso è un veicolo di valori molto importante, per offrire nuovo ossigeno a una situazione che ne è a corto, ma lo scontro fra ideali e soldi ha sempre portato alla vittoria dei secondi. Allontanare i mercanti dal tempio è sicuramente una delle prime ricette necessarie, ma andrà accompagnata anche da medicine che alzino la competitività dei tornei, come la nascita (o il ritorno) di campionati e coppe sovranazionali, per ricreare quello che fu un tempo il fortissimo campionato jugoslavo. La strada è in salita. Ma da quelle parti, non è certo una novità.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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