di Adrien Hémard, So Foot (3/11/2020). Traduzione di Alessandro Mastroluca
Buongiorno Manuel, ha lasciato il posto di allenatore del Cormontreuil (Régional 1, settima divisione francese) subito prima del lockdown. Come va?
Sto bene, anche la mia famiglia sta bene: egoisticamente, è la cosa essenziale visti i tempi che corrono. Poi, per essere completamente onesto e trasparente, sono quasi sollevato di aver lasciato il posto di allenatore. Non era una decisione facile da prendere nel pieno della stagione, ma il calcio dilettantistico come lo viviamo adesso non è il mio calcio. Non è come quello che conoscevo. Il calcio che amavo è stato ucciso dal Covid.
Ha annunciato la sua decisione in un post Facebook con il messaggio: «Stop al calcio». Perché?
Questa stanchezza deriva dalla crisi sanitaria. E sfortunatamente penso che questa situazione durerà ancora per molti mesi. Spero di sbagliarmi per gli appassionati di calcio, ma sono pessimista. I club dilettantistici e i loro calciatori hanno grandi meriti dall’inizio della crisi. Hanno fatto tutti grandi sforzi per adattarsi, per rispettare le misure di distanziamento. Purtroppo i dirigenti, soprattutto la Federazione (FFF) di cui le leghe non sono che portavoce, fanno poco caso al mondo dei dilettanti.
Cosa rimprovera alla FFF?
Agli occhi della federazione, il calcio dilettantistico è l’ultima ruota del carro. I club sono molto poco considerati. La FFF ci ha chiesto tanto, e l’abbiamo fatto. In cambio, però, il calcio dilettante non ha avuto niente o quasi. I dirigenti della federazione sono lontanissimi dalla realtà del campo. Mi fanno pensare a certi uomini politici che scoprono il prezzo del pain au chocolat a margine di un’intervista. Sono disconnessi rispetto alle difficoltà dei club dilettantistici, non mostrano alcuna compassione, alcun sostegno finanziario, nonostante una situazione critica con dozzine di club che rischiano di fallire.
Concretamente, che impatto ha avuto il Covid sul suo modo di allenare?
Con le misure sanitarie che dobbiamo applicare e che comprendiamo, la situazione è diventata invivibile. Il club è diventato una fabbrica: devi prepararti il più velocemente possibile, allenarti, e poi ripartire il più velocemente possibile. Per me il calcio è una questione di persone, soprattutto nelle categorie dilettantistiche. Tutti i momenti di scambio, di convivialità in spogliatoio, nella club house o dopo le partite, sono spariti. La mascherina ha ucciso tutto. In queste condizioni, avere un gruppo con una vita di spogliatoio è ormai impossibile. Quando vedo i calciatori che devono spogliarsi in panchina anche se piove a secchiate è scoraggiante. Devo fare all’aperto i miei discorsi pre-partita. E in inverno è simpatico… Non potevo convocare i calciatori con lo stesso anticipo dei tempi normali. La vita di gruppo era ridotta a niente. Ed era questo che da allenatore mi faceva andare avanti, più della tattica. Non mi ci ritrovavo più.
A che punto ha detto stop?
Rientravo la sera molto irritato, ero sempre nervoso. Non dormivo più nonostante un’enorme stanchezza fisica e psicologica. Ho anche creduto di aver contratto il Covid, e invece era colpa del calcio. A un certo punto, mi sono fatto le domande giuste. Non volevo mancare di rispetto ai miei giocatori a causa del contesto. Ero diventato impaziente, meno comprensivo. E quando urlavo contro i miei giocatori, sapevo che in fondo non era colpa loro. Quando ho realizzato tutto questo, ho deciso di smettere. Vivo di calcio da quando ho 17 anni e per la prima volta ho avuto la sensazione di non meritare il mio ingaggio per quanto modesto. Ne ho parlato al presidente e ai giocatori. Ho fatto le cose correttamente, me ne sono andato qualche giorno prima del nuovo lockdown, il che mi ha confortato nella mia decisione.
A marzo scorso, quando allenava il Reims Sainte-Anne, vi hanno negato la promozione in N3 (la sesta divisione) per lo stop ai campionati quando eravate primi a pari merito. Ha pesato nella sua decisione?
Se dicessi di no mentirei. Sicuramente questa delusione di marzo pesa ancora oggi nella decisione di lasciare il club e abbandonare il calcio. Ho trovato ingiusto che ci abbiano negato la promozione quando eravamo primi, certo con una partita in più, ma l’ho accettato, non ho avuto altra scelta. In tanti hanno vissuto la stessa situazione, nessuno ha avuto scelta. Eppure la delusione era ancora in un angolo della mia mente, perché resta difficile da mandare giù.
Se si fosse trovato sulla panchina di un club professionistico o semi- professionistico, avrebbe avuto la forza di continuare?
Sicuramente sarebbe stato più facile da affrontare. Più il livello è basso, più grandi sono le difficoltà in questo momento. Con tutta la modestia del mondo, se questa mia protesta può far prendere coscienza alla FFF sul fatto che le cose vadano malissimo nelle serie inferiori… La priorità sono questi piccoli club. La crisi economica ucciderà il calcio dilettantistico, perché andrà a toccare gli sponsor che aiutano i club a questi livelli, l’abbiamo sentito quest’estate. Non voglio passare per un cavaliere bianco o lanciare un movimento di dimissioni di massa. Quando ho deciso di fermarmi, sono morto dentro. Il peggio è stato lasciare i miei giocatori, avevo paura più di tutto che lo prendessero come un tradimento.
È un arrivederci o un addio?
Non si sa mai che può succedere, ma diventerò un semplice spettatore del calcio. Non so quante squadre ho allenato, quanti titoli ho vinto: me ne infischio. Alla fine, quel che resta sono gli incontri. Da quando ho detto stop al calcio, ho ricevuto tantissimi messaggi di ringraziamento: è la medaglia più bella. Il mio obiettivo era aiutare i miei giocatori a progredire come calciatori e come uomini. Molti mi dicono che ci sono riuscito e tanto mi basta. Sarò ufficialmente in pensione dal primo febbraio 2021. Non avevo previsto di prenderla così presto. In questa stagione, mi ero impegnato in questo ultimo progetto che era speciale perché mio figlio giocava nella squadra. Mi sembrava bello finire così. E invece… Ho anche dei progetti fuori dal calcio, non necessariamente per lavoro. Alla fine, oltre al calcio non so fare nient’altro, faccio questo da quarant’anni… Con mia moglie, anche lei di origine portoghese, pensiamo di tornare in Portogallo per la pensione. Possiamo iniziare a fare le valigie.