Traduzione di Alessandro Mastroluca
Flórián Albert ha festeggiato i suoi settant’anni il 15 settembre 2011. Potremmo dire nella più pura tradizione ungherese, se conoscessimo poco dell’Ungheria. Siamo nella sala ricevimenti delle celebri terme dell’hotel Gellért, al suono di un’orchestra di musica zigana. Tutti gli invitati sono venuti ad abbracciare il solo e unico Pallone d’oro del calcio magiaro, premiato nel 1967. Tutti, tranne Dezső Novák. Erano i migliori amici al mondo quando giocavano insieme con la maglia del Ferencváros negli anni Sessanta. Ma Dezső Novák quel giorno non c’era. E per una ragione. Albert non gli aveva mai perdonato di aver fatto la spia rivelando informazioni sullo spogliatoio del Ferencváros tra il 1963 e il 1983 per conto della polizia ungherese.
«Siediti, ho delle cose da dirti»
Novák, alias «Nemere» – il suo nome in codice per l’AVH (l’Allamvédelmi Hatosag, una sorta di KGB magiaro) –, è stato smascherato nel 2004. Aveva 64 anni, e niente più da chiedere alla vita. Aveva completato il suo ultimo incarico da allenatore al Fradi, il soprannome del Ferencváros, nel 1996. Mentre prepara un libro sulla storia del calcio nel suo Paese, il giornalista ungherese Mátyás Imre scopre l’esistenza di «Nemere» negli archivi nazionali, aperti al pubblico dopo la caduta del comunismo. Sospetta che ci sia Novák dietro lo pseudonimo di quell’agente che avrebbe spiato anche un altro calciatore arrivato all’epoca in nazionale, Zoltán Varga. Tra gli indizi il fatto che Novák abbia giocato solo nove volte in nazionale. Ma al momento giusto. Infatti è stato l’unico calciatore della selezione ad aver vinto i due titoli olimpici del 1964 e 1968. Mátyás Imre gli telefona una prima volta, Novák nega di aver qualcosa a che fare con «Nemere» ma il giorno dopo richiama il giornalista. Ormai è stato scoperto. «Ero io», gli confessa. La notte prima, era andato a dormire alle quattro. Aveva passato la notte a confessare tutto il suo passato alla famiglia. «Siediti, devo raccontarti delle cose» ha detto a sua moglie, che ha sposato nel 1961. Poi ha chiamato i suoi figli, in piena notte. Prima di confidarsi con Mátyás Imre, Novák rivela: «Forse avrei dovuto parlare nel 1989 alla caduta del regime, ma volevo prendermi cura della mia famiglia e cancellare quegli eventi dalla memoria. Ormai, non mi serve più a niente nascondermi, perciò ti dirò tutto. Sarà la prima e l’ultima volta».
La guerra fredda e una macchina nera
Al culmine della tensione tra i due blocchi, all’inizio degli anni Sessanta, il Ferencváros attraversava la cortina di ferro ogni anno a Pasqua per giocare un torneo a Vienna. I giocatori ne approfittavano per acquistare beni di consumo con la scritta «Ovest» e rivenderli in Ungheria. «All’epoca tutti facevano contrabbando. Sapevamo che, se avessimo vinto, i doganieri avrebbero chiuso un occhio al nostro ritorno», confida «Nemere». Una volta, in quegli anni, Novák e un compagno di squadra tornano dall’Austria con degli orologi. Passata la frontiera, Novák consegna la sua scorta all’amico, che afferma di poterlo aiutare a venderli. «Dopo qualche settimana, non avevo ancora visto un soldo. L’ho chiamato e mi ha detto: “In effetti c’è un problema, devo ridarti indietro gli orologi”». L’appuntamento è fissato in un ristorante di Budapest, il Thököly, non lontano dallo stadio della nazionale ungherese. «Me lo ricordo come fosse ieri. Quando entro, noto due persone. Un uomo malvestito e una donna che faceva finta di leggere un giornale. Due poliziotti. Il mio amico è arrivato, mi ha restituito gli orologi, io li ho nascosti in una tasca e sono uscito. Davanti al ristorante, mi aspettava un terzo poliziotto che mi ha chiesto di seguirlo. Siamo andati al commissariato, dove mi hanno interrogato per cinque ore. Mi hanno ricattato: “O lavori per noi, o andrai in galera e la tua carriera sarà finita”. Ho chiesto un po’ di tempo per pensarci…».
I membri dell’AVH lo vanno a cercare all’uscita dell’allenamento del Ferencváros. Per tre volte lo portano in giro per le strade di Budapest in una «macchina nera con i finestrini oscurati». Alla fine della terza «passeggiata», Novák accetta di diventare «Nemere». Qualche settimana dopo, firma un documento che gli conferisce lo status di spia. «So che non è una scusante, ma non ho mai letto cosa ci fosse scritto su quel documento. Volevo solo giocare a calcio, sapevo fare solo quello. Non mi interessava della politica. Mi avevano cacciato dal Partito Comunista perché non avevo rinnovato la tessera».
Nella sua nuova vita, «Nemere» viene convocato tre volte in via Tolnai Lajos, la sede dell’AVH. «Volevano sapere se incontravamo degli esuli ungheresi quando giocavamo all’estero. Ma non ho mai accusato nessuno dei miei compagni di squadra. Pensate che se avessi detto qualcosa su Varga, le autorità lo avrebbero lasciato partire per le Olimpiadi del Messico? No. Hanno anche tentato di farmi cadere in contraddizione perché la mia versione non corrispondeva a quello che sapevano o volevano sentirsi dire», spiega l’ex difensore.
«Di cosa avete parlato con quell’esule?»
A fine carriera, nel 1973, Novák diventa allenatore del Ferencváros. Una scelta strana: il ruolo viene offerto a un allenatore alla prima esperienza e che mal si concilia con le abitudini del calcio ungherese dell’epoca. Novák sostituisce sulla panchina del Fradi il suo ex compagno di squadra Jenő Dalnoki. Fino alla morte nel 2006, quest’ultimo non ha mai creduto alla linea difensiva di Novák che considerava semplicemente come un traditore. «Non è stato costretto a diventare un agente. Se faceva la spia su di noi, è perché lo voleva. Nel 1965 abbiamo partecipato a un torneo negli Stati Uniti. Una sera, abbiamo parlato a lungo con un emigrato ungherese nel bar dell’hotel. Quando siamo rientrati, l’AVH mi ha convocato nella loro sede. Mi hanno chiesto: “Di cosa avete parlato in trentasette minuti con quell’emigrato?”. Ero sorpreso che fossero in possesso di dettagli così precisi. Ora so che era stato Novák. E c’era sempre lui dietro la mia cacciata dalla panchina del Ferencváros». Nel 1983 Novák è chiamato di nuovo ad allenare il Fradi, in un’epoca in cui si colloca la fine dell’attività di «Nemere» per l’AVH.
Paradossalmente, «è l’unica occasione» in cui ha «chiesto aiuto». «Qualcuno agiva alle mie spalle, volevano farmi fuori. Così ho chiamato i miei contatti perché si occupassero di chi lavorava contro di me. Non hanno fatto più nulla e non mi hanno convocato mai più».
La domenica successiva alla divulgazione del suo passato, come tutti i weekend Novák va a Budapest per giocare un match con gli Old Boys, una squadra formata da vecchi calciatori del Fradi. «Ci ero andato per scusarmi. Se non mi avessero più voluto in squadra, me ne sarei andato». Tutti gli Old Boys si riuniscono in spogliatoio per ascoltare le sue confessioni. Dopo 45 minuti l’ex portiere István Géczi dichiara: «Novák è sempre stato parte della famiglia del Ferencváros e lo resterà». Flórián Albert, disgustato, boicotta la riunione. «Non era una vittima del sistema, è stata una sua scelta. Finché qui ci sarà “Nemere”, io non verrò più». L’ex Pallone d’Oro ha mantenuto fede alla sua parola fino alla morte.