Traduzione di Alessandro Mastroluca
Il caldo è opprimente a Pointe-Noire, città portuale del Congo-Brazzaville, nel mese di ottobre del 1976. Sono le 16 e ci sono 38 gradi con il 90% di umidità. Eppure, lo stadio Mvoulalea è due volte più pieno del solito. I 10.000 spettatori presenti non sono venuti per la partita di campionato contro il Télésport, ma per vedere il nuovo acquisto del V.Club Mokanda. E non resteranno delusi. Settimo minuto: Lakou Abossolo, il capitano della squadra locale, tira dal limite dell’area, la palla colpisce la traversa e finisce sui piedi del nuovo giocatore di 26 anni. Tira, gol! La folla è scatenata: il “Mundele” ha segnato! Il “Mundele”, il bianco, è Charles Pulfer, che fino a qualche mese prima giocava per l’FC Pieterlen, nella terza divisione svizzera. «Da quel momento, è andato tutto molto veloce», ride Pulfer che a lungo ha lavorato per la centrale nucleare di Berna e in seguito gestito in parallelo la formazione dei giovani arbitri allo Young Boys. Una storia che racconta in lungo, in largo e di sbieco, parlando velocissimo.
Mobutu, carpa alla griglia e vino portoghese
Pieterlen dunque, comune del cantone di Berna piazzato al piede sud del Giura, villaggio di media montagna incastonato in una valle, attraversato in mezzo dall’autostrada per le stazioni di sci, con i fiori alle finestre dalle case e la squadra dilettante di calcio. Dove, negli anni Settanta, Charles Pulfer fa parlare la sua velocità di ala di 1,72 che gli vale la possibilità di far parte, confessa, dei «migliori giocatori» del campionato. Un club di seconda divisione lo segue. Ma Pulfer ha altri piani. A 8000 chilometri di distanza, nel Congo-Brazzaville. Ha accettato un posto di capocantiere per la Frutiger, impresa edile svizzera che deve costruire per i cereali silos «alti più di cinquanta metri».
A metà degli anni Settanta, il Congo non è certo una destinazione da sogno. Il regime socialista è instabile e fronteggia numerosi tentativi di colpo di Stato. I Paesi confinanti non sono molto più accoglienti: nel “gran” Congo, lo Zaire, detta legge il dittatore Mobutu, mentre l’Angola è in preda a una guerra civile tra i movimenti che hanno combattuto per ottenere l’indipendenza. Numerose truppe inviate da Fidel Castro come rinforzo per aiutare l’MPLA, movimento di orientamento marxista, vi arrivano attraversando Pointe-Noire, la città di frontiera che Charly ha eletto a suo domicilio.
Convogli a parte, nella città portuale regna la calma. La sera vengono organizzate partite di calcio fra espatriati. Una volta, vengono anche invitati a giocare un’amichevole contro la squadra riserve del V. Club Mokanda, squadra della prima divisione congolese. In quell’incontro, vinto 4-1, Pulfer segna una doppietta. Ma, dettaglio ancora più importante, attira l’attenzione dell’allenatore avversario. Di proprietà del patron di Air Afrique, Tchekaya Tschikaya, il club è uno dei migliori del Congo. All’epoca i calciatori, in gran parte studenti, non sono pagati, ma il club schiera alcuni giocatori della nazionale congolese che ha vinto la Coppa d’Africa del 1972. Alla vigilia delle partite, tutta la squadra dorme nella proprietà «gigantesca e su un unico piano» del presidente. La ragione è semplice: «I congolesi sono festaioli e noi eravamo giovani, 17-18 anni. Se ci avessero lasciato più libertà, avremmo passato le notti a bere birra e ballare con le ragazze».
Charles ne sa qualcosa, dorme con loro sugli stessi materassi di caucciù sullo stesso pavimento anche se i dirigenti gli propongono di beneficiare di una camera a parte. Proposta respinta, un gesto molto apprezzato dai compagni di squadra. Come le volte in cui li ha riforniti di scarpette con i tacchetti Künzli che ha fatto arrivare dalla Svizzera attraverso il corriere della sua ditta. Oppure quando, durante la pausa per la stagione secca, prende la sua macchina per portarli alla spiaggia di Pointe-Indienne a gustare della carpa grigliata con il pili-pili (una salsa piccante), accompagnata con manioca e innaffiata «con un Mateus bello fresco, un delizioso vino rosé portoghese, un po’ speziato».
«All’epoca non parlavamo di AIDS»
Il piccolo svizzero è talmente integrato che partecipa anche al programma organizzato dal guaritore. Prima della partita, quest’ultimo brucia delle erbe su cui lui e i compagni devono camminare. Incide loro la pelle con un rasoio, «appena sotto il ginocchio, applicando una polvere scura “contro gli infortuni” sulla ferita. All’epoca non si parlava dell’AIDS». In trasferta, esige che non prendano la strada più diretta per arrivare allo stadio, «perché le strade sono minate». Ovvero maledette dallo stregone “avversario”. E quando un giornalista locale domanda a Charles se crede in tutto questo, gli risponde: «Sicuro», anche se oggi ammette che il suo obiettivo era «non essere scortese». Niente di sorprendente, dunque, per l’uomo che diventa il cocco della città. Mentre i francesi vengono costantemente controllati alle frontiere, la polizia militare lo chiama «Monsieur Charles» e non lo disturbano quando porta una donna del posto sul sedile del passeggero. «Potevano essere molto gelosi e chiedere dei soldi per vendicarsi».
Charles Pulfer, a proposito dei compagni di squadra congolesi
I poliziotti hanno ancor meno il divertimento di chiedergli una bustarella l’anno dopo. Nel 1977, il V.Club è inarrestabile in Coppa del Congo. Nonostante passi otto ore a sgobbare in cantiere, «anche di più in caso di betonaggio perché è meglio farlo la sera» e gli capiti di saltare degli allenamenti, fa parte del viaggio per Brazzaville dove li aspettano i “Diavoli Neri”. Un viaggio in treno di dodici ore per cui ha dovuto chiedere quattro giorni di congedo. I più redditizi della sua vita, sicuramente. La finale si gioca il 31 dicembre allo Stade de la Révolution davanti a oltre trentamila spettatori. Un incontro a cui non bisognava arrivare in ritardo. È dalla panchina che Charles assiste al quinto minuto al gol di testa del suo compagno di squadra Matama. Il solo e unico della partita, malgrado l’ingresso in campo del “Mundele” nel secondo tempo. Al fischio finale, i tifosi invadono il campo. Pulfer si ritrova in mutande e calzettoni. Il resto gli è stato portato via. Fino a quel momento, il punto più alto della sua carriera era il gol del pareggio per la sua squadra svizzera contro l’FC Kleinhüningen in un primo turno di coppa…
Sfilata in Peugeot 404 decappottabile
Kinkala, Madingou, Loubomo, a ogni stazione del viaggio di ritorno, il capitano mostra la «Coppa dell’ottavo anniversario del Partito» ai tifosi accorsi in massa. Ma il vero trionfo ha luogo a Pointe-Noire. Il presidente guida la sua Peugeot 404 decappottabile attraverso la folla. Pulfer si tiene in piedi sul sedile posteriore, il trofeo in argento sulla punta delle dita. «Avevo l’impressione di essere un piccolo Pelé». Due mesi prima, il vero Pelé aveva appeso le scarpette al chiodo e, al culmine della sua carriera, Pulfer decide di fare lo stesso lasciando il Congo. «Sono il primo impiegato dell’azienda a essere arrivato e l’ultimo a essere ripartito». Tornato nel suo paese, aiuta la squadra del Pieterleien nella lotta per non retrocedere. Tuttavia, Charles non ha lasciato tutto il suo glorioso passato alle spalle. È tornato accompagnato dalla nipote dell’allenatore, una bella congolese che sposerà nel 1982 e gli darà due figli. Ma soprattutto con un soprannome per i suoi compagni di squadra svizzeri: «Congo-Charly».