di Alexandros Tziolis, a cura di Alexandros Sotiropoulos – Athletestories.gr, 24/1/2021
Traduzione e adattamento di Enzo Navarra
23 maggio 2020. Quella colazione rimarrà per sempre impressa nella mia mente. Non era una colazione ordinaria. Era il giorno in cui ho annunciato la fine della mia carriera calcistica.
La fine e l’inizio di un sogno
Il calcio per me non è solamente un capitolo della mia vita. È la mia vita. È il sogno d’infanzia che si è avverato. Al massimo livello.
La decisione è stata presa molto tempo prima. Non avrei mai immaginato quanto sarebbe stata difficile annunciarla, soprattutto a me stesso.
Ho giocato da professionista per 17 anni in 11 squadre, 505 partite con i club e 75 in Nazionale: in totale 580 incontri ufficiali. Li ricordo tutti. Dal debutto con il Panionios all’El Paso, contro il Kallithea in trasferta, fino all’ultima partita nel lontano Al Majma’ah in Arabia Saudita.
Tanti momenti speciali, che li terrò con me per sempre.
La finale persa di Coppa Uefa del 2009 con il Werder Brema a Istanbul, l’Europeo del 2008 in Austria e Svizzera, i Mondiali del 2010 in Sudafrica e del 2014 in Brasile sono le grandi tappe della mia avventura calcistica.
Capitolo 1 – Quel viaggio
Chi l’avrebbe mai detto, a quei tempi, che il mio primo viaggio di Atene, sul finire del 2001, avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Da membro della Nazionale greca Under-19 e da giocatore dell’Apollon Litochorou, affrontammo in amichevole la Repubblica Ceca sul campo di Nea Smyrni [nello stadio del Panionios, N.d.T].
Lì mi notarono le persone del Panionios e nello specifico Giorgos Dedes [ex punta e membro dello staff tecnico rossoblù in quel periodo, N.d.T]. Non passarono molti giorni quando squillò il mio telefono di casa mia.
Non avrei mai creduto che una chiamata mi avrebbe fatto così tanto felice e sarebbe stato l’inizio del mio sogno. Del mio grande viaggio…
«Vogliamo Alexis al Panionios…» le prime parole che mio padre Panagiotis sentì al telefono. E come avrebbe potuto rifiutare? All’età di 17 anni. Da calciatore di Prima Categoria dell’unità periferica di Pieria [Tziolis è nato a Katerini, N.d.T] mi trovai di colpo ad Atene, in Alpha Ethniki e al Panionios. Non ebbi mai paura.
Ero pronto e soprattutto deciso di afferrare questa opportunità. Ricordo ancora l’ansia, i pensieri e tutte le preoccupazioni che avevo nel mio viaggio ad Atene nel giorno in cui sono andato a firmare il contratto. Il Panionios – anche a quei tempi – era una squadra che dava sempre un’opportunità a ragazzi della mia età per mostrare il loro talento. Ricordo ancora il primo giorno in cui entrai negli spogliatoi e incontrai i miei compagni di squadra.
Non dimenticherò la mia prima casa a Nea Smyrni. Era vicina allo stadio. E come poteva non esserlo, dopotutto, visto che da minorenne non avevo né la patente, né una macchina, quindi i miei spostamenti dovevano essere brevi.
Non vivevo da solo. Come coinquilino avevo Giorgos Titis [compagno di squadra di Tziolis al Panionios, anche lui classe ‘85, N.d.T], con cui sono amico anche adesso.
Anche la comunicazione con i miei genitori e le mie persone non era semplice, anzi. A quei tempi vivevamo l’era della scheda telefonica e ricordo che ogni pomeriggio, dopo ogni allenamento, andavo nella più vicina cabina telefonica per chiamarli, sapere le loro novità e parlare delle mie preoccupazioni…
1/12/2002: Una data cardine per la mia carriera. Al 79’ di quella partita contro il Kallithea, il mio allenatore di allora Jozef Bubenko mi chiamò dalla panchina per mettermi in campo. «Alexis, è arrivato il tuo momento, goditelo…» mi disse ed entrai al posto di Erol Bulut, attuale allenatore del Fenerbahçe [esonerato lo scorso 25 marzo, N.d.T].
In quella stagione la squadra terminò al 5° posto, conquistando un pass per la Coppa Uefa e giocai 16 partite. Una stagione importante per me, perché sono riuscito a giocare spesso nella massima divisione da giovanissimo: non era molto semplice, soprattutto in quegli anni.
27/11/2003: Un’altra data importante per me. La mia prima partita europea. Il debutto al Camp Nou. Contro il Barcellona di Ronaldinho e delle altre stelle di allora. Che momento…
All’andata giocammo a Nea Smyrni, venendo sconfitti per 0-3. Pensavo che un anno e mezzo prima mi trovavo nel mio paesino a Katerini e ora calpestavo il campo del più storico stadio d’Europa. Entrai al 72’. Ricordo che guardavo verso le imponenti tribune, le stelle del Barcellona chiedendomi se tutto questo, all’età di 18 anni, fosse vero.
Capitolo 2 – Panathinaikos
Dopo tre stagioni al Panionios, nell’estate del 2005, arrivò l’offerta del Panathinaikos. Non ci pensai un attimo.
Esigenze diverse. Grande concorrenza. E comunque, tuttavia, ero sicuro di me e delle mie potenzialità.
In quella estate, nel mio stesso ruolo, il Panathinaikos acquistò giocatori di livello mondiale come Conceição che aveva giocato nel Real Madrid e Bišćan dal Liverpool. E accanto a loro un ragazzo di 20 anni come me.
9/8/2005: Il mio debutto con il Panathinaikos: partita della fase di qualificazione di Champions League col Wisła Cracovia, in Polonia. Feci il mio ingresso in campo al 63’ al posto di Bišćan.
In quella stagione giocai 26 partite. Realizzando un altro dei miei sogni: giocare nei gironi di Champions League. La mia prima partita fu contro la mia futura squadra, il Werder Brema. I casi della vita…
Quanto più passava il tempo, acquisivo sempre più importanza nella rosa, nonostante cambiassimo tanti allenatori. Malesani, Backe, Muñoz, Peseiro, ten Cate. Da tutti ho imparato qualcosa. Con l’olandese [Henk ten Cate, N.d.T] in panchina ci fu la partita che mi segnò più di qualunque altra. Quella contro il Werder, in Germania, il 4 novembre del 2008. Lo 0-3 a Brema in cui segnai la terza rete. Tutto sembrava un sogno per me e la squadra.
A quel punto cominciarono i momenti difficili nel mio rapporto col Panathinaikos. La famiglia Vardinogiannis lascia la società e arriva la società a partecipazione multipla. Era giunta l’ora del cambiamento.
Credevo e mi sentivo che ero pronto per il prossimo passo, quello ancora più grande: giocare all’estero. Il Werder era molto interessato e mi ingaggiò nel gennaio 2009 con la formula del prestito semestrale. Quando questo concluse e tornai ad Atene, niente era più come prima.
Ero stato messo fuori rosa e mi allenavo da solo. Improvvisamente, vedevo distruggersi tutto quanto intorno a me. Non potevo fare niente per cambiare la situazione. Solo qualche mese prima avevo giocato una finale di Coppa Uefa, avevo conquistato la Coppa di Germania e mi trovavo inerme su un divano con tanti interrogativi che mi ronzavano in testa. Non mi meritavo tutto questo. Questo era sicuramente il più difficile periodo della mia carriera.
Però mi rese testardo. Mi cambiò come persona. Diventai più resistente, più forte. Lì capii che nella vita tutto si poteva ribaltare da un momento all’altro.
Mi sento fortunato, tuttavia, perché accanto a me ho sempre avuto le mie persone e la mia famiglia. I punti di appoggio della mia vita. E devo loro un grande ringraziamento. Per tutto.
Capitolo 3 – Paok
Nel 2013, dopo una lunga avventura all’estero in tante squadre e Paesi, dopo la mia esperienza all’Apoel Nicosia, arrivò l’offerta del Paok.
Appena avevo sentito dell’interessamento, ero restio. Inizialmente, perché non volevo tornare nel campionato greco.
Le trattative andarono avanti, parlai con Zisis Vryzas [ai tempi era il presidente della squadra di Salonicco, N.d.T], il quale mi voleva in squadra, e compresi subito la visione del signor Ivan Savvidis [patron della società bianconera, N.d.T]. Il progetto era molto ambizioso e serio: arrivarono anche altri giocatori della Nazionale come Katsouranis e Salpingidis.
Ha avuto un ruolo importante, ovviamente, anche la mia famiglia. Ero mancato così tanti anni dalle mie persone e ormai mi sarei quasi avvicinato a loro, giocando al contempo in una grande squadra con tanta gente al nostro seguito. Così presi una decisione che si rivelò più semplice di quanto pensassi.
Come in tutte le grandi squadre, con tanti tifosi, c’è una pressione che devi saper gestire. Avevo già avuto la mia esperienza col Panathinaikos e non avevo problemi. La differenza era nel fatto che Salonicco è una città più piccola, una società più chiusa, quindi si vive tutto più intensamente. Da giocatore sei più vicino al tifoso: può incontrarti di mattina, quando vai a prendere il tuo caffè o mentre sei al supermercato e verrà a parlarti. Personalmente non ho mai vissuto male questo tipo di pressione e non ho mai avuto alcun comportamento negativo nei miei confronti. Anzi, direi quasi il contrario.
Nei primi mesi in squadra, affrontammo i playoff di Champions League contro lo Schalke 04. Un momento cruciale per la società e il fallimento di un’occasione d’oro per accedere ai gironi. È un qualcosa che ricordo ancora intensamente e con molta tristezza.
Così si perse una grande occasione. Se in quel momento il Paok fosse riuscito ad accedere ai gironi, avrebbe fatto parecchi passi avanti. La mia penultima stagione fu la più completa in quanto a presenze e prestazioni. Era un grande onore per me, visto che indossai anche la fascia da capitano.
Ricorderò per sempre con nostalgia il momento in cui entravo nel Toumba [lo stadio del Paok, N.d.T] per giocare. Il momento in cui uscivamo dal tunnel per andare in campo.
L’atmosfera era davvero unica. I tifosi erano il dodicesimo uomo e ti davano la spinta, questo stadio aveva qualcosa di particolare, di speciale. Ha ragione chi dice che è uno dei campi più difficili per ogni avversario e lo dico avendo giocato in alcuni dei più imponenti stadi in Europa. Specialmente nelle grandi partite era una goduria giocare là.
Capitolo 4 – Estero
Otto squadre in otto Paesi diversi. Iniziando da Brema e concludendo ad Al Majma’ah in Arabia Saudita. Esperienze uniche. Ricordi di una vita.
All’estero ho visto e vissuto tanto. Posti, culture e stili di vita diversi da Paese a Paese. L’estero ti mette alla prova e ti rende più maturo. Alla fine diventi una persona più completa.
Il Werder Brema fu la prima tappa della mia avventura all’estero. La prima sfida. In Bundesliga. Un campionamento altamente competitivo. In una società che puntava a vincere ogni competizione in cui partecipava. In una rosa che aveva giocatori di livello mondiale, come il brasiliano Diego, Mesut Özil e il peruviano Pizarro. Fu una stagione agrodolce. Dolce per la conquista della Coppa di Germania per 1-0 contro il Bayer Leverkusen di Angelos Charisteas e amara per la sconfitta in finale di Coppa Uefa contro lo Shakhtar a Istanbul.
Ricordo, passo per passo, tutto il percorso per arrivare a quella finale, quando eliminammo grandi squadre: tra di loro anche il Milan ai sedicesimi. Una squadra che aveva giocatori come Maldini, Pirlo, Seedorf, Inzaghi, Shevchenko, Beckham.
In finale giocai da subentrato, fallendo l’opportunità di segnare il 2-2 ai supplementari: il mio tiro aveva infatti fatto la barba al palo. Quella era l’ultima occasione per portare la gara ai rigori.
Nel 2010, mentre per me tutto era “buio” a causa della situazione al Panathinaikos, il mio telefono squillò. Dall’altra parte della linea c’era Alberto Malesani, allenatore del Siena, il quale mi conosceva bene dalla sua esperienza in Grecia. «Αlexandros, ti voglio in squadra» erano le sue parole. Non ci pensai nemmeno un minuto. La fine di quella telefonata era la fine del mio incubo.
Al momento del mio arrivo, la squadra si trovava all’ultimo posto in Serie A e le possibilità di salvezza non erano molte. Nonostante questo, avevamo giocato al massimo delle nostre possibilità. Giocai 13 partite nella seconda metà di quella stagione. Purtroppo, la squadra non riuscì ad evitare la retrocessione.
In seguito, è arrivata la Liga spagnola e il Racing Santander, dopo il Mondiale del 2010. Sono andato in prestito dal Siena, partendo da titolare, ed ero molto soddisfatto. Il campionato spagnolo era adatto al mio modo di giocare.
Il mio grave infortunio, con la tibia fratturata nella partita della Nazionale, mi tolse l’opportunità di concludere la stagione. Un momento sfortunato era stata la causa per non giocare un’annata completa. Tornai dalla Spagna, tuttavia, con i migliori ricordi.
Prossimo passo, la Francia e il Monaco. Era l’anno in cui aveva rilevato la società il magnate russo Dmitrij Rybolovlev. Mi recai là a dicembre, con la squadra che si trovava in una fase di transizione, cercando un modo per tornare in Ligue 1.
Il Monaco fece tanti acquisti, aveva una rosa molto ampia e per me fu un semestre da incubo. È stata l’unica squadra della mia carriera in cui non ho giocato quasi mai. Questo per me è stato un altro test. Non mi ero goduto nulla, nonostante le comodità, il lusso e la qualità della vita che il Principato ti offriva.
Poi mi trasferii all’Apoel Nicosia. A Cipro ritrovai me stesso. In questo mi aiutò molto Ivan Jovanović, il mio allenatore in quella esperienza.
Calcisticamente ero tornato a stare in piedi, riacquisendo la fiducia. Giocai un’ottima annata, stavo bene personalmente, legando con la gente e facendomi degli amici. L’apice fu la conquista del campionato e il ritorno in Nazionale.
La tappa successiva era in Turchia al Kayserispor. Mi presero in prestito dal Paok. Ho giocato 15 partite ma ho ricevuto tanto affetto da tutti. Non c’era affatto alcuna cattiveria/odio/rivalità, a causa della nazionalità greca.
Poi sono andato in Scozia, negli Hearts, in una città stupenda come Edimburgo e in un Paese che adora il calcio. Lì giocai solamente cinque mesi. Un periodo breve, certamente, ma fu abbastanza per tornare importante e calcare il campo, dopo un semestre di inattività nel Paok. Gli stadi pieni e il ritmo asfissiante delle partite erano indimenticabili.
L’ultima e più particolare tappa della mia carriera è stata all’Al-Fayha in Arabia Saudita. Sono andato nell’estate del 2017. Inizialmente ero molto cauto, non ci credevo molto come destinazione. Cercando e chiedendo in giro, ho visto che come campionato avevano investito tanto in giocatori, allenatori, infrastrutture e non solo.
Ovviamente non lo nascondo, il fattore economico aveva un grande peso e così mi sono trovato in quel Paese. Il primo impatto era scioccante, perché si trattava di un mondo totalmente diverso rispetto a quello che conosciamo. Già dall’aereo cominciavo a notare la differenza. Arrivando in aeroporto ho notato uomini con la djellaba e donne vestite di nero col burqa. Immagini di una certa rilevanza per l’occhio di un europeo.
Nel periodo di adattamento ho cercato di capire come si comportano, il modo di pensare delle persone che incontravo, la diversa quotidianità.
La ricchezza è qualcosa di evidente, ovunque tu vada, ovunque guardi. Il calcio non poteva essere un’eccezione. E non solo per gli allenatori e i calciatori, che scelgono di intraprendere questa avventura, ma anche per gli arbitri.
Infatti, mi è capitato di giocare in una partita arbitrata da Tasos Sidiropoulos o anche da Mark Clattenburg, che è attualmente il capo degli arbitri in Grecia.
Non ero però tra i fortunati, visto che vivevo in una città piccola con poche opzioni per il tempo libero. La mia quotidianità era una routine: Casa, allenamento e così via. Vivevo in una grande stanza d’albergo. Il caldo era insopportabile. Sono rimasto là per due stagioni e non me ne sono pentito nemmeno per un istante: né dal punto di vista calcistico, né come esperienza di vita. È stato il più particolare capitolo della mia vita e me lo ricorderò per sempre.
Capitolo 5 – Nazionale
Uno dei più importanti della mia vita. Mi viene la pelle d’oca solamente al pensiero, quando mi vengono in mente momenti, fatti, situazioni. La Nazionale greca era sempre qualcosa di speciale, qualcosa di diverso nella mia mente.
Alla fine del 2005 venni convocato per la prima volta da Otto Rehhagel per un’amichevole in Arabia Saudita. Qui ebbi il mio primo incontro con i ragazzi che avevano conquistate l’Europeo in Portogallo.
Dai festeggiamenti per strada un anno e mezzo prima ero diventato un loro compagno di squadra. Ad appena 21 riuscii a diventare un membro di questo club ristretto, conquistando la fiducia del signor Rehhagel.
Aveva una grande energia quella squadra, la sentivi in ogni momento, in ogni allenamento ad Agios Kosmas [la Coverciano greca, N.d.T], davanti a centinaia di persone.
Mi sento fortunato e benedetto, perché per un decennio ho fatto parte di una squadra che ha vissuto – dopo l’Europeo del 2004 – un’altra epoca d’oro, giocando in Europei e Mondiali. Ho giocato complessivamente 75 partite ufficiali con la bandiera sul petto, segnando due reti.
L’ingrediente del successo per quella squadra era il fatto che si discostava da ogni giochetto politico e dirigenziale, dal fanatismo: non la influenzava niente e nessuno. Automaticamente, quindi, si guadagnava il rispetto, perché era qualcosa di speciale. Tutti noi la vedevamo come qualcosa di speciale.
Con la Nazionale debuttai nel gennaio del 2006 in un’amichevole contro la Corea del Sud. Una partita dal sapore agrodolce, perché mi feci male e fui sostituito.
Ricordo intensamente la partita dei playoff contro l’Ucraina, quando conquistammo la qualificazione per la fase finale del Mondiale del 2010 in Sudafrica. Ho giocato nelle tre le partite di quella competizione da titolare, contribuendo in maniera attiva in tutte. L’apice fu la prima vittoria della Grecia nella storia dei Mondiali, il 2-1 alla Nigeria.
Ci trovammo negli spogliatoi all’intervallo sull’1-1 e i nostri avversari erano rimasti in dieci. Invece di essere calmi e lucidi, poiché ci eravamo accorti di avere una grande occasione davanti a noi, c’era una grande tensione tra di noi. Quasi al limite del fraintendimento. Facevamo come delle bestie rinchiuse in gabbia, pochi istanti prima di essere… liberati! Questo atteggiamento ebbe – fortunatamente – un effetto positivo sul campo e con una prestazione molto buona centrammo un obiettivo storico! In quel momento senti di far parte della Storia.
Non poteva non averti influenzato tutto questo. Successivamente affrontammo l’Argentina. Da quella partita ricordo bene durante la riunione tecnica l’indicazione di Rehhagel a Sokratis, il quale doveva seguire ovunque Messi. Doveva essere la sua ombra. E, naturalmente, ricordo intensamente la figura di Maradona in panchina. Alla notizia della sua scomparsa mi era tornata in mente tutta quella partita.
Quattro anni dopo arrivò il secondo Mondiale di fila e, per qualificarci, dovevamo nuovamente affrontare il playoff, stavolta contro la Romania. Specialmente nella partita di casa, al Karaiskakis, non avevo mai vissuto qualcosa del genere. L’atmosfera per una partita della Nazionale era unica.
Andammo in Brasile. La vittoria contro la Costa d’Avorio che ci portò agli ottavi. Non dimenticherò mai nella mia vita la nostra esultanza alla rete della qualificazione di Samaras [su rigore al 93’, N.d.T]. Poi arrivò la sconfitta, l’eliminazione contro la Costa Rica ai rigori.
Un momento che segnò la mia carriera fu il grave infortunio durante la partita contro la Lettonia nell’autunno del 2010. Venivo dal Mondiale sudafricano, avevo iniziato la stagione con una nuova squadra, il Racing Santander. Giocavo bene per un campionato come quello spagnolo. Un istante, tuttavia, bastava per cambiare tutto.
In un contrasto mi fratturai la tibia. Non c’è qualcosa di peggio per un calciatore. Ogni giorno, fino al mio ritorno, era come se fosse doppio, interminabile. La voglia di tornare, invece, era enorme.
Un anno e mezzo dopo, un’altra delusione: la mia esclusione dalla rosa per l’Europeo del 2012. Ero nella lista dei preconvocati, andai alla preparazione in Austria ma alla fine ero stato tagliato fuori. Ero dispiaciuto: titolare in quasi tutte le partite, avevo dato anche l’anima, il meglio di me e, oltre a sentirmi deluso, mi sentivo vittima di un’ingiustizia. Ancora oggi non posso dimenticarlo.
Forse aveva avuto un ruolo anche l’inattività col Monaco in quella stagione. Fernando Santos, poco tempo prima, era venuto nel Principato per parlarmi. «Alexis, non ti posso convocare per l’Europeo, è la mia decisione definitiva…» mi disse, senza spiegarmi il motivo per cui avesse preso questa decisione. «Penso che sia un’ingiustizia. Lo rispetto mister, però sicuramente dopo l’Europeo mi riconvocherai, stanne certo» gli risposi. E così fu. Pochi mesi dopo ero di nuovo là.
La differenza di base tra Rehhagel e Santos era nel fatto che il primo appoggiava le sue scelte. Sosteneva l’ossatura della squadra. Anche nei momenti in cui potevi anche non rendere al massimo con il tuo club. E lo faceva con tutti. Certamente entrambi erano tra i principali motivi per cui riuscimmo come Nazionale a raggiungere l’élite del calcio mondiale.
Capitolo 6 – Io, Alexandros
Ho scelto in maniera conscia, in tutti gli anni della mia avventura calcistica, di tapparmi le orecchie su tutte le cose che si dicevano e si sentivano in certi periodi su di me, a livello personale, e sulle mie capacità tecniche.
Per me l’essenza del calcio è sempre stato lo sport in sé e nient’altro intorno ad esso. Così come la stampa, i media e i giornalisti facevano il loro lavoro, così portavo avanti il mio, senza dare importanza a quello che veniva scritto su di me.
Così, da molto presto, sono stato bollato con la parola «antigiornalistico». Questo è cominciato principalmente dal mio periodo al Panathinaikos. Quello che mi ha sempre interessato era il parere dell’allenatore e dei miei compagni di squadra. Le loro opinioni erano importanti per me. Con questo in mente, ho smesso di leggere e ascoltare tutto ciò che mi riguardasse.
Di conseguenza, questo mi ha tolto tanta pressione che avrei probabilmente avuto se avessi dato importanza a loro. Forse per questo non ho mai fatto qualcosa per identificarmi con una squadra o essere apprezzato della tifoseria.
Rispettavo infinitamente tutte le squadre e i tifosi ma non ho mai venduto opadiliki per diventare il beniamino della curva. Ora, con la mente più lucida e trovandomi fuori dall’ambiente negli ultimi due anni, la mia risposta a tutto questo è che c’era una grande dose di esagerazione e ingratitudine nelle critiche che ricevevo. Ma non mi pento del mio atteggiamento, anzi.
Qualsiasi altro comportamento da parte mia sarebbe stato contrario alle mie convinzioni, al mio carattere e ai principi con cui sono stato cresciuto dalla mia famiglia.
In conclusione, mi basta che il mondo del calcio, le persone che ne fanno parte e soprattutto gli allenatori, sappiano e capiscano chi sono. E hanno un’opinione di me, che penso di meritarmi. Ossia che sono stato un ottimo calciatore.
Post Scriptum: La vita dopo il calcio – Un amore che non si spegne mai
Con la speranza di diventare un allenatore ancora migliore, mi preparo per il prossimo passo. Sto già seguendo il corso della Federazione per prendere il patentino da allenatore. Lo avevo deciso molti anni fa. Anche da calciatore mi era entrata in testa l’idea di diventare un allenatore, pensandoci in maniera sempre più intensa.
Quanto più passava il tempo, più questo desiderio diventava chiaro dentro di me. Già da piccolo, quando giocavo, avevo sempre una spontanea tendenza a “leggere” il gioco, dando importanza alle mosse degli allenatori. Era qualcosa che mi piaceva: l’analisi tattica, i moduli.
Ho sempre fissato degli obiettivi nella mia vita. Così come adesso.
Immagino me stesso, tra qualche anno, su una panchina di una grande squadra, rivivendo l’intensità della vita quotidiana, gli allenamenti, la preparazione alle partite, la competitività.
Rivivere, al massimo, tutte le sensazioni che vengono stimolate dal calcio. Che ringrazio per tutto quello che mi ha regalato, per quello che mi ha reso e per quello che mi ha insegnato…
* Il «6» era il ruolo in cui giocava Alexandros Tziolis [in Grecia il mediano ha quel numero, N.d.T] e il numero di maglia per gran parte della sua carriera.
La carriera di Alexandros Tziolis nel professionismo
2002 – 2005 Panionios
2005 – gen. 2010 Panathinaikos
gen. 2009 – giu. 2009 Werder Brema (prestito)
gen. 2010 – ago. 2011 Siena
ago. 2010 – giu. 2011 Racing Santander (prestito)
2011 – 2012 Racing Santander
gen. 2012 – 2013 Monaco
2012 – 2013 Apoel Nicosia (prestito)
2013 – gen. 2017 Paok Salonicco
feb. 2014 – giu. 2014 Kayserispor (prestito)
gen. 2017 – ago. 2017 Hearts
ago. 2017 – 2019 Al-Fayha
2006 – 2018 Grecia